Buon
sabato! Oggi post speciale dedicato alla recensione di un film a cura della
dolcissima Federica. Oggi ci parla
di The Help, romanzo di Kathryn Stockett,
portato sul grande schermo da Tate Taylor nel 2012.
Titolo Originale: The Help
Genere: Drammatico
Sceneggiatura: Tate Taylor
Anno: 2011
Regia: Tate Taylor
Distribuzione: Walt Disney
Interpreti: Emma Stone, Viola Davis, Octavia Spencer,
Bryce Dallas Howard, Sissy Spacek, Jessica Chastain
Durata: 146'
Data uscita: 20/01/2012
Mississippi,
anni 60. Skeeter (Emma Stone), 22 anni, torna a casa dalla famiglia dopo aver
frequentato il college. Al contrario dei desideri della madre, che le vorrebbe
trovare al più presto un marito, Skeeter coltiva l’ambizione di diventare
scrittrice e decide di iniziare scrivendo un romanzo che raccoglie le
esperienze delle domestiche di colore. La ragazza comincia a intervistarle,
partendo da Aibileen (Viola Davis), la governante che l’ha cresciuta come una
figlia e da Minny (Octavia Spencer), la sua irresistibile amica. Ma il loro
progetto è destinato a sconvolgere gli equilibri della società in cui vivono,
intrisa di pregiudizi, razzismo e ipocrisia…
A cura di Federica
Se qualcuno un giorno mi
avesse detto che mi sarei ritrovata a scrivere la recensione del film The
help, non gli avrei creduto. Perché, per me, questo film non è uno di quelli
che finisce nel dimenticatoio come spesso mi è capitato e come penso, capita a tutti.
Per me, questo film è l’apoteosi della speranza, del bisogno di condivisione e
del prendersi cura l’uno dell’altro quando sembra che il mondo in cui vivi
voglia schiacciarti facendoti credere che il seme del male non smetterà mai di
germogliare e crescendo, a invadere lo spazio di quello del bene annientandolo
a poco a poco per fargli capire senza mezze misure che tutto lo spazio
universale spetterà sempre e soltanto a lui … e della forza, del coraggio,
della determinazione a sfidare anche l’universo intero pur di far sentire la
propria voce e a lasciare un segno. Ma, prima di entrare nel cuore dei miei
pensieri su questo film, permettetemi una piccola parentesi, più che doverosa
per me. Non posso non sottolineare che se io ho la possibilità di far sentire
la mia, di voce, e nel mio piccolo, a lasciare il segno che spero di lasciare a
chiunque legga ciò che scrivo, lo devo solo a Antonietta Mirra, la quale mi ha
pregato di smettere di ringraziarla. Però, vedete, in un mondo dove l’egoismo,
l’indifferenza, la mancanza di empatia, la maleducazione, la mancanza di
rispetto e il bisogno costante, instancabile di sfogare le proprie debolezze
sul prossimo per sentirsi più forti, più superiori facendo sentire l’altro una
completa nullità, un essere che vale meno di zero, ecco che io mi sento non
semplicemente in dovere di ringraziarla ma di tenerla su un palmo di mano, è
una persona che seppur distante chilometri da te, con una sola frase è in grado
di strapparti dal tuo sentirti una completa nullità, un essere che vale meno di
zero, e se sto dicendo, anzi, scrivendo questo pubblicamente, è perché credo
chiunque ti faccia questo, merita di essere degno di nota quanto per me lo è
questo libro e questo film. Chiudo parentesi e se vorrete leggere quello che
segue, farete di me una persona più felice.
Era una domenica
pomeriggio del lontano 2010 quando questo libro, è magicamente apparso davanti
ai miei occhi, ero avvilita e svilita da ciò che mi circondava ma che non
smetteva neanche un attimo di farmi sentire come se non fossi circondata
proprio da niente, e quale posto migliore per cercare di togliersi di dosso
tutto quello che la vita ti sbatte addosso senza tanti complimenti se non una
libreria?
Tuttavia penso siano i
libri, a volte, a cercare te, e non viceversa. Potrei dilungarmi all’infinito
dicendo che questo libro per me non è solo un libro ma un libro che davvero
sarebbe un peccato non leggere. Kathryn Stockett mi ha regalato ore e ore di
pura riflessione tra sorrisi e risate e lacrime come non mi era mai successo
prima. E da libro straordinario quale è, come poteva non prendere vita anche
sul grande schermo? Con regia e sceneggiatura firmati da Tate Taylor, amico
d’infanzia dell’autrice del romanzo, il quale aveva già opzionato i diritti
cinematografici del libro prima della pubblicazione. Distribuito negli Stati
Uniti nell’agosto 2011 a cura della Touchstone Pictures e da noi nel gennaio
2012 dalla Walt Disney Pictures.
Neanche a farlo apposta,
era il 9 febbraio di quattro anni fa quando, nella sala “Dafne” del cinema
Apollo di Milano, riflettei, sorrisi e risi tra le lacrime non potendo non
pensare che questa storia non aveva veramente prezzo, perché è così, cari
lettori, questa storia non ha prezzo, e chiunque abbia letto prima il libro si
sarà accorto che per lo schermo sono state tagliate e cambiate molte cose ma
non per questo il film è sceso di livello come invece spesso succede per i film
tratti dai romanzi, ma d’altronde penso che quando decidono di trasporre un
libro in un film il libro resterà sempre “il libro” e il film “il film”, le due
cose non potranno mai combaciare perfettamente come due tasselli di un puzzle,
però penso anche che ciò che viene sottratto al libro, il film poi lo
ricompensi con la magnificenza di uno sguardo, di due occhioni che ti guardano
mostrandoti il cuore e l’anima riuscendo a esprimere più di quanto non possano
mai fare le parole, e dicendo questo sto pensando a quelli di Minny,
interpretata magistralmente da Octavia Spencer. E sullo schermo, come tra le
pagine del libro, si srotola un caleidoscopio che dà voce a Eugenia Phelan,
chiamata da tutti “Skeeter”, a Aibileen, a Miss Leefolt, a Minny, a Miss Hilly
e a Miss Celia Rae Foote.
Skeeter, finita
l’università, ritorna a casa a Jackson, in Mississippi, con un unico pensiero
in testa: diventare giornalista o scrittrice di romanzi o tutte e due le cose e
avendo con sé un bagaglio pieno di entusiasmo e fiducia nelle proprie
aspettative che la porta ad ottenere subito un lavoro al Jackson Journal dove
curerà la rubrica di Miss Myrna dedicata alle pulizie domestiche, ragion per
cui viene presa in giro dal fratello Carlton che le dice: “Credevo volessi
scrivere dei libri!”. E, tra i ricordi di bambina che non può non associare se
non a Constantine, la domestica di colore che prestava servizio presso la sua
famiglia e che è stata rimpiazzata ma che ai suoi occhi non era mai stata
semplicemente una domestica ma un esempio da seguire oltre che all’unica spalla
su cui piangere e su cui poter contare ogniqualvolta si sentiva messa da parte
come quando non era stata invitata al ballo della scuola … “Basta, la devi
smettere di piangerti addosso.”, le disse. “Tu, un giorno, farai qualcosa di
bellissimo con la tua vita.”, ecco che allora, come un fulmine a ciel sereno,
le balza in testa l’idea di scrivere un libro di interviste sulle domestiche di
colore che lavorano presso le famiglie bianche chiedendo a Elaine Stein, il
direttore editoriale della casa editrice Harper & Row di New York, se
sarebbe disposta a leggere ciò che scriverà.
E a chi altri potrebbe
rivolgersi se non a Aibileen, che la sta già aiutando per la rubrica delle
pulizie domestiche? Aibileen è una domestica di colore che lavora presso Miss
Leefolt, una donna dall’aspetto coriaceo ma più fragile di un vaso di cristallo
dentro visto che il suo cuore è a pezzi dopo la morte del figlio, Treelore, che
è morto sul lavoro quando aveva ventiquattro anni. Minny, la sua migliore amica
nonché miglior cuoca del Mississippi, è l’unica persona al mondo in grado di
alleviare le sue pene. Ma … non si dice che il male non sempre vien per
nuocere? Perché proprio quando Minny viene licenziata da Miss Hilly solo perché
beccata a usare il bagno che non dovrebbe più usare dato che ha appena proposto
l’iniziativa per l’igiene domestica in modo tale da far costruire un bagno ad
uso esclusivo per il personale di colore visto che secondo lei hanno malattie
diverse dai bianchi, che Aibileen accetta di lavorare anche al libro, dove
confessa di aver cresciuto diciassette bambini bianchi e che il primo continuava
a chiederle: “Perché non sei bianca?”, e lei gli rispose: “Perché ho bevuto
troppi caffè.”. Aibileen aveva capito di essere in grado di fare quello che le
mamme dei bambini di cui si occupava non erano in grado di fare: infondere loro
fiducia, come a Mae Mobley, la bambina di cui si occupa adesso e che la notte
dorme ancora con il pannolino ma che Miss Leefolt non si prende neanche la
briga di cambiarglielo, rendendola anche oggetto di scherno davanti alle amiche
perché “ha sempre fame”, così, l’innocenza del suo essere bambina fa
considerare Aibileen la sua vera mamma, che guardandola e trattandola sempre
con amore come dovrebbe fare chi l’ha messa al mondo, la fa sedere sulle sue
gambe e le dice: “Tu sei carina, tu sei brava, tu sei importante.” Ma Aibileen
è anche una scrittrice visto che per un’ora o due tutte le sere ha bisogno di
mettersi a scrivere le preghiere e le sue storie, affermando con timidezza e
come se la cosa fosse oggetto di vergogna, che solo scrivendo è in grado di
farsi capire meglio. Così, anche Minny, quando trova un altro lavoro da Miss
Celia Rae Foote, sposata con l’ex fidanzato di Miss Hilly – motivo di tanto
rancore da parte di quest’ultima che etichetta come “ragazza volgare” e di
conseguenza tagliata letteralmente e completamente fuori dalla cerchia, se così
la si può chiamare, di amiche – prende parte alla collaborazione del libro.
Se da un punto di vista
prettamente personale queste non possono che sembrare soltanto delle piccole
finestre che si aprono e poi si richiudono con una folata di vento, io penso
che una storia così, che abbia avuto lo straordinario potere di unire per
sempre e incondizionatamente la vita di una donna bianca a quella di due donne
di colore che negli anni Sessanta hanno avuto il coraggio di sfidare il mondo
entro il quale erano confinate soffocandole con le loro regole, abbiano
spalancato non una porta ma un portone delle dimensioni di una casa che credo
solo la forza, la determinazione e il coraggio potevano fare, il coraggio di
esprimere quello che nessuno si aspetterebbe, ma che spesso non viene né
compreso e né tantomeno premiato se non con una bella porta sbattuta in faccia
dal tuo bellissimo e affascinante fidanzato accusandoti di essere stata
un’egoista … fidanzato che al primo appuntamento era stato un disastro completo
visto che ti dice chiaro e tondo e ridendoti in faccia che una donna che scrive
una rubrica di pulizie domestiche è la cosa peggiore che potrebbe fare, ma
d’altro canto è pure vero che all’università del Mississippi le è stato insegnato
come accalappiare un uomo, dettato, forse, anche dal fatto che quella sera non
pensava ad altro che ad alzare un po’ troppo il gomito, cercando di rimediare
poi in un secondo momento con una cenetta deliziosa a base di ostriche e
crackers e ketchup confessandoti che in fondo gli piace una donna che dice
quello che pensa e che leggendo, finalmente, la tua famosa rubrica, ti dice
guardandoti con occhi pieni d’amore: “Scrivi bene” e “Spero che tu scriva una
cosa in cui credi, una cosa bella.”
Ma se, oltre a
un’immensa gratificazione come può dartela solo il veder realizzato un tuo
sogno, qualcosa in cui credevi veramente e fino in fondo come in questo caso la
pubblicazione di un libro e l’abbattimento delle regole sociali, va ad
aggiungersi anche la famosa risposta positiva di Elaine Stein nel volerti nella
sua casa editrice a New York e la voce di tua madre che guardandoti dritto
negli occhi ti dice: “Il coraggio talvolta salta una generazione. Grazie di
averlo riportato nella nostra famiglia … non sono mai stata tanto orgogliosa di
mia figlia.”, ti dici: “Non ne valeva la pena?”
Come i nostri cari,
preziosissimi libri, anche questo film ci invita a riflettere che non sempre la
perdita di un lavoro o di un amore significhi per forza “la fine del mondo” o
“la perdita della nostra autostima”. Ad esempio, la nostra Minny qui, dopo
essere stata letteralmente cacciata via di casa da Miss Hilly perché anziché
andar fuori aveva usato il bagno padronale, poteva forse immaginare che Miss
Celia potesse essere l’unica signora bianca in tutto il Mississippi che non
l’avrebbe mai trattata come un animale ma come una persona, anzi, come una sua
pari che al di là del colore diverso dal suo e che fosse una semplice domestica
meritava di essere rispettata e amata perché un essere umano come tutti gli
altri? E quale gratificazione migliore poteva ricevere, oltre alla sicurezza di
uno stipendio fisso, quando il marito, sempre guardandoti dritto negli occhi,
ti dica sincero: “Da quando hai cominciato a lavorare qui, lei ha cominciato a
stare meglio, quindi tu le hai salvato la vita.”, e spostandoti gentilmente la
sedia per farti accomodare davanti a una tavola da dodici che non era mai stata
usata perché la moglie, per ringraziarti di essere stata l’amica di cui aveva
bisogno nel momento del vero bisogno, è rimasta in piedi tutta la notte per
cucinare quello che tu le avevi insegnato dandoti poi la forza che ti serviva
per lasciare il marito che non aveva mai smesso di picchiarti per il puro e
semplice piacere di farlo, di portare via i figli dalle sue grinfie e non
tornando più nella casa in cui non potevi più sentirti “a casa”?
… E anche alla nostra
carissima Aibileen, visto che, naturalmente, è un fatto risaputo e strarisaputo
che l’essere buoni non sempre paga, soprattutto con chi non la merita la nostra
bontà, al contrario, è il tuo essere buono che ti porta a perdere quando ti
ritrovi faccia a faccia con l’essere umano più crudele che possa mai incontrare
ma che, seppur nella perdita, tra le lacrime e con un pizzico di orgoglio, ti
faccia dire: “Mae Moebly è stata la mia ultima bambina. Nel giro di dieci
minuti, l’unica vita che conoscevo, non c’era più. Dio dice che bisogna amare
il nostro nemico … è difficile però, ma si può cominciare dicendo la verità.
Nessuno mi aveva mai chiesto cosa provavo a essere me stessa. Quando ho detto
la verità mi sono sentita libera e ho cominciato a pensare a tutte le persone
che conosco e alle cose che ho visto e che ho fatto. Mio figlio Treelore diceva
sempre che un giorno ci sarebbe stato uno scrittore in famiglia … Credo che
sarò io.”, seguito dall’inedito scritto e interpretato da Mary J. Blige, The
Living Proof, facendole ottenere una candidatura al Golden Globe per “la
migliore canzone originale” e che in me, ogni volta che la ascolto, risveglia
l’animo di ballerina che sono stata, come del resto tutta la colonna sonora che
accompagna il film.
Nel salutarvi, cedo la
parola all’autrice del romanzo. Vi assicuro che se leggerete quanto segue,
potrete capire fino in fondo quanto sia stato importante per lei scrivere
questo libro. Io trovo che sia bellissimo e soprattutto non da tutti gli
autori, aprire il proprio cuore al pubblico per condividere con lui una parte
della sua vita che ha fatto di lei non solo la scrittrice ma la donna che è diventata.
Ragione per cui mi ha spinto a trascriverlo testuale parola per parola.
TROPPO POCO, TROPPO
TARDI
Kathryn Stockett, con
parole sue
La domestica della
nostra famiglia, Demetrie, diceva sempre che raccogliere cotone in Mississippi
nel cuore dell’estate è il passatempo peggiore che esista a parte raccogliere
gombo, un’altra pianta bassa e spinosa. Ci raccontava molte storie di quando
lavorava nei campi da giovane. Rideva e, scuotendo la testa, faceva segno di no
con il dito come ad ammonirci, quasi che la raccolta del cotone fosse un vizio
come il fumo o l’alcol in cui noi, ricchi ragazzini bianchi, rischiavamo di
cadere.
“Non ho fatto che
raccogliere per giorni e giorni, poi mi sono accorta che avevo la pelle piena
di bolle. L’ho mostrata alla mamma: non si era mai visto un nero che si
scottava al sole. Quella era roba da bianchi!”
Ero troppo piccola per
rendermi conto che ciò che ci raccontava non era poi tanto buffo. Demetrie era
nata nel 1927 a Lampkin, Mississippi, subito prima della Depressione: un anno
orribile per nascere, il momento giusto per capire perfettamente, fin dalla più
tenera età, cosa significasse essere poveri, di colore e per giunta di sesso
femminile in una fattoria a mezzadria. Demetrie venne a servizio nella mia
famiglia quando aveva ventotto anni. Allora, mio padre ne aveva quattordici e
mio zio sette. Corpulenta e molto scura di pelle, era sposata con un ubriacone,
un tipaccio manesco di nome Plunk. Quando le chiedevo di raccontarmi di lui,
non rispondeva. Ma, marito a parte, con noi era disposta a parlare di qualsiasi
cosa.
E Dio solo sa quanto mi
piacesse parlare con Demetrie. Al mio rientro da scuola, andavo sempre a
sedermi in cucina per ascoltare le sue storie, e intanto la osservavo mescolare
l’impasto per la torta o friggere il pollo. Cucinava in modo sublime, e dopo
pranzo i suoi piatti erano oggetto di lunghe disquisizioni tra i commensali
alla tavola della nonna. Quando gustavi la sua torta al caramello, ti sentivi
amato.
A me e ai miei fratelli
non era permesso disturbarla durante i pasti. La nonna diceva sempre:
“Lasciatela in pace, adesso, lasciatela mangiare: questo è il suo momento di
riposo”, e io rimanevo vicino alla porta della cucina, impaziente di tornare da
lei. La nonna voleva che Demetrie riposasse per poter poi finire il suo lavoro,
e comunque i bianchi non sedevano mai allo stesso tavolo di un nero intento a
mangiare.
Regole del genere
venivano considerate assolutamente normali. Ricordo che da bambina, quando
vedevo le persone di colore nei quartieri neri della città, le compativo anche
se apparivano ben vestite e in piena salute. Adesso, ammetterlo mi imbarazza
molto.
Demetrie, invece, non mi
faceva pena. Per diversi anni ho pensato che fosse immensamente fortunata ad
avere da noi un lavoro sicuro, a fare le pulizie in una bella casa di bianchi
timorati di Dio. Inoltre era senza figli, e a noi sembrava di riempire un vuoto
nella sua vita. Se qualcuno le chiedeva quanti figli avesse, lei alzava tre
dita. Intendeva noi: mia sorella Susan, mio fratello Rob e io.
Benché i miei fratelli
lo neghino, io ero la sua preferita. Nessuno si arrabbiava con me se nei
paraggi c’era Demetrie. Lei mi metteva davanti allo specchio e diceva: “Tu sei
bellissima. Tu sei una bambina bellissima”, benché fosse evidente che non lo
ero. Portavo gli occhiali, e i miei capelli castani erano dritti come spaghi.
Inoltre, provavo un’ostinata avversione nei confronti della vasca da bagno. Mia
madre era spesso fuori città, e siccome Susan e Rob non mi volevano tra i piedi,
io mi sentivo esclusa. Demetrie lo capiva e mi prendeva la mano per consolarmi.
I miei genitori
divorziarono quando avevo sei anni, e allora Demetrie divenne ancora più
importante per me. In occasione dei frequenti viaggi della mamma, papà portava
tutti noi e Demetrie nel motel di sua proprietà. Io avevo una tale nostalgia
della mamma che piangevo disperata sulla sua spalla e mi veniva addirittura la
febbre.
A quell’epoca, mia
sorella e mio fratello si erano in un certo senso affrancati da Demetrie.
Andavano all’ultimo piano del motel a giocare a poker con gli impiegati della
reception e usavano le cannucce del bar al posto dei soldi.
Ricordo che li guardavo
invidiosa perché erano più grandi. “Non sono più una bambinetta” pensai una
volta. “Non devo stare appiccicata a Demetrie mentre loro giocano a poker.”
Così mi inserii nella
partita e nel giro di cinque minuti persi tutte le mie cannucce. Tornai in
braccio a Demetrie facendo la scena per essere stata esclusa, e ripresi a
osservarli. Neanche un minuto dopo, appoggiai la fronte sul suo collo morbido e
lei cominciò a cullarmi come fossimo entrambe in barca.
“Il tuo posto è qui. Qui
con me” disse dandomi dei colpetti sulla gamba calda. Aveva le mani sempre
fresche. Guardavo i miei fratelli maggiori giocare a carte e non mi importava
più di tanto che la mamma fosse lontana. Io ero dove dovevo essere.
Le valanghe di giudizi
negativi sul Mississippi – nei film, sui giornali, alla televisione – hanno
reso noi del posto diffidenti e sempre sulla difensiva. Siamo pieni di orgoglio
e di vergogna, ma soprattutto di orgoglio.
Ciononostante, ho dovuto
andarmene da lì. A ventiquattro anni mi sono trasferita a New York. Sapevo che
la prima domanda che chiunque faceva in una città così abituata a un continuo
viavai di persone era: “Di dove sei?”. Io rispondevo: “Mississippi. Poi
rimanevo in attesa.
A chi diceva con un
sorriso: “Ho sentito che è bellissimo laggiù”, io replicavo: “La mia città è al
terzo posto nella nazione per omicidi tra bande”. Se qualcuno se ne usciva con
un: “Dio, devi sentirti sollevata a essertene andata da quel posto”, io rizzavo
il pelo e ribattevo: “Cosa ne sai? E’ un posto splendido”.
Una volta, a una festa
su una terrazza, un tizio mezzo ubriaco di una qualche ricca città bianca a
nord di New York mi chiese di dove fossi e, quando risposi: “Mississippi”, lui
commentò con un sorriso di compatimento: “Oh, come mi dispiace”.
Gli ficcai il tacco a
spillo nel piede e lo tenni inchiodato dieci minuti per istruirlo con calma e
dovizia di particolari su William Faulkner, Eudora Welty, Tennessee Williams,
Elvis Presley, B.B.King, Oprah Winfrey, Jim Henson, Faith Hill, James Earl
Jones e Craig Claiborne, l’editorialista e critico culinario del “New York
Times”. Lo informai che in Mississippi hanno avuto luogo il primo trapianto di
polmone e il primo trapianto di cuore, e che nella locale università sono state
create le basi del sistema legale degli Stati Uniti. Avevo nostalgia di casa e
aspettavo proprio uno come lui. I miei modi non furono gentili e neppure
eleganti: il poveretto si allontanò imbarazzato e per tutto il resto della
festa apparve nervoso. Ma non ero proprio riuscita a trattenermi.
Il Mississippi è come
mia madre: io posso lamentarmene finché voglio, ma guai a chi osa sollevare una
minima critica nei suoi confronti, a meno che anche lui non sia suo figlio.
Ho scritto L’aiuto
quando ero ancora a New York. Immagino fosse più facile farlo là piuttosto che
in Mississippi, a diretto contatto con quella realtà. La distanza ha aggiunto
profondità di visione. In mezzo al frastuono di una città frenetica, è stato un
sollievo rallentare i pensieri e abbandonarmi ai ricordi.
L’aiuto è
sostanzialmente un’opera di narrativa, eppure mentre la scrivevo mi sono spesso
chiesta cosa ne avrebbe pensato la mia famiglia, e anche Demetrie, benché fosse
morta da molto tempo. Dando voce a una donna di colore, temevo di oltrepassare
un confine proibito. Avevo paura di non riuscire a descrivere in modo adeguato
quel rapporto che ha influenzato profondamente la mia esistenza. Un rapporto
tenero, che nella storia e nella letteratura americana è sempre stato
banalmente stereotipato.
Ho provato un grande
senso di gratitudine nel leggere l’articolo di Howell Raines “Il dono di
Grady”, insignito del Premio Pulitzer
Per uno scrittore del
Sud, non c’è argomento più delicato dell’affetto tra un nero e un bianco nel
mondo ingiusto della segregazione. Infatti, l’ipocrisia su cui si basa la
società rende sospetta ogni emozione, per cui è impossibile capire se il
sentimento che esisteva tra due persone era genuino, oppure dettato dalla compassione
o dal pragmatismo.
L’ho letto e ho pensato:
“Come ha fatto a dire tutto questo in modo così essenziale?”. Io ero alle prese
proprio con quel tema difficile, che sgusciava via tra le mani come un pesce.
Raines era riuscito a fissarlo con poche frasi. Ero contenta di non sentirmi
sola nella mia lotta.
Come per il Mississippi,
i miei sentimenti nei confronti de L’aiuto sono estremamente conflittuali. Temo
di aver detto troppo riguardo al confine tra donne nere e donne bianche. Mi era
stato insegnato a non parlare di cose tanto imbarazzanti: era un argomento
sconveniente, indelicato, e loro avrebbero potuto sentirci.
Ma temo anche di aver
detto troppo poco: per molte donne di colore a servizio nelle case del
Mississippi la vita era assai più dura e, al contrario, parecchie altre avevano
con la famiglia presso cui lavoravano un rapporto affettivo così profondo che
non avrei avuto abbastanza inchiostro o tempo per descriverli.
Di un fatto sono sicura:
non credo di sapere che cosa significasse veramente essere una donna nera in
Mississippi, specialmente negli anni Sessanta. Penso che nessuna bianca che
stacca un assegno per pagare una nera possa mai veramente capire. Ma cercare di
farlo è essenziale per un essere umano. Ne L’aiuto c’è una frase che amo molto.
Non era questo lo scopo
del libro? Far capire alle donne: “Siamo semplicemente due persone, e non sono
molte le cose che ci separano. Molte meno di quanto si pensi”
Sono quasi certa di
poter affermare che nessuno della mia famiglia abbia mai chiesto a Demetrie
come ci si sentisse a essere una nera al servizio di una famiglia bianca in
Mississippi. E’ un’idea che non ci ha mai sfiorato la mente. Si trattava di
vita quotidiana: non ci si sentiva obbligati a studiare a fondo la questione.
Demetrie morì quando avevo
sedici anni. Per molto tempo ho rimpianto di essere stata troppo giovane e
distratta per rivolgerle quella domanda, e ho passato anni ad arrovellarmi
sulla risposta che mi avrebbe dato. Ecco perché ho scritto questo libro.
Kathryn Stockett è nata
e cresciuta a Jackson, in Mississippi. Dopo la laurea in letteratura si è
trasferita a New York, dove ha lavorato nell’editoria e nel marketing dei
periodici. L’aiuto (2009) è il suo primo romanzo, accolto con grande favore di
critica e pubblico.
La trama del libro:
E’ l’estate del 1962
quando Eugenia “Skeeter” Phelan torna a vivere in famiglia a Jackson, in
Mississippi, dopo aver frequentato l’università lontano da casa. Sua madre
desidera per lei solo un buon matrimonio, ma la ragazza ha in mente ben altro:
diventare scrittrice.
Aibileen è una domestica
di colore, saggia e materna, che per un tozzo di pane ha allevato amorevolmente
uno dopo l’altro diciassette bambini bianchi, facendo le veci delle loro madri
spesso assenti.
Minny è la sua migliore
amica. Bassa, grassa, con un marito violento e una piccola tribù di figli, è
con ogni probabilità la miglior cuoca ma anche la donna più sfacciata e
insolente di tutto il Mississippi.
Negli anni in cui Bob
Dylan comincia a testimoniare con le sue canzoni la protesta nascente, Skeeter,
Aibileen e Minny si ritrovano a lavorare segretamente a un progetto comune che
le esporrà a gravi rischi. Perché lo fanno? Perché i rigidi confini che
delimitano la loro esistenza le soffocano. Perché il vento della libertà inizia
a soffiare.
Antonietta?
RispondiEliminaGrazie!!!
E' bellissimo poter vedere tutto questo ... qui.
<3 <3 <3
Sai cosa penso del tuo scrivere e del tuo essere qui, quindi continua così!
EliminaOgni tua recensione è un tuffo con tutti i vestiti e le scarpe nel romanzo o nel film, come in questo caso. Sei un treno in corsa ed esplodi di emozioni. Travolgi e porti via. E cosa più importante: sei vera. :****
Ho letto queste righe qualcosa come trenta minuti fa, non so se mi spiego ... ma mi ci è voluto tutto questo tempo per poter ritornare qui e scrivere quello che mi sta attraversando.
EliminaChi non mi conosce non può sapere quanto sincero e vero sia tutto ciò che dico, e credo non esista gratificazione più grande per me, ricevere parole come le tue, Antonietta. E non esagero se dico che mi sto sentendo come Skeeter nel libro e nel film, perché sebbene non abbia ancora pubblicato il mio libro né niente, sapere che sono in grado di trasmettere quello che desidero trasmettere riesce a spazzare via in un attimo tutto il cinismo contro cui questo treno in corsa è sempre andato a sbattere andando in frantumi, e mai come adesso comprendo appieno cosa vogliono dire gli scrittori quando dicono che per loro non esiste gratificazione migliore di chi li legge e apprezza il loro lavoro che richiede sul serio tanti tanti sacrifici.
Perciò, grazie, grazie davvero. <3 <3 <3
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaHo visto questo film tempo fa, veramente molto bello. Ritrovo nelle tue parole le emozioni che ho vissuto allora e anche di più ... Perché mi hai fatto riflettere maggiormente su alcuni punti e poi mi hai trasportato in una favolosa scoperta di dettagli davvero emozionante. Grazie infinite ☺️
RispondiEliminaPs sono d'accordo con te a volte sono i libri a sceglierci 😍
Ciao Sara, grazie infinite a te. <3
RispondiEliminaQuello che hai detto mi fa sentire come immersa da una montagna di regali. Sono felice di essere in grado di fare quello che non mi sarei mai aspettata di poter fare. :-)
Ma allora dillo che vuoi farmi sciogliere: recensisci tutti i miei libri preferiti! Non c'è nulla da aggiungere, oltre all'ovvio: sei una maga con le parole e meriti tutto l'affetto che ricevi qui e altrove.
RispondiEliminaGlinda? Lo devo ancora consultare il mio dizionario ...
EliminaIl mio cuore sta per implodere dalle emozioni!!
Grazie, grazie, grazie. <3 <3 <3