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mercoledì 25 giugno 2025

Recensione: PIÙ GENTILE DELLA SOLITUDINE di Yiyun Li

Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice NNEditore, oggi vi parlo di Più gentile della solitudine di Yiyun Li.

piÙ gentile della solitudine

di Yiyun Li
Editore: NNEditore
Pagine: 400
GENERE: Narrativa contemporanea
Prezzo: 9,99€ - 20,00
Formato: eBook - Cartaceo
Data d'uscita: 2025
LINK D'ACQUISTO: ❤︎
VOTO: 🌟🌟🌟🌟 

Trama:
Dopo i drammatici eventi di piazza Tienanmen, nella Pechino degli anni ’90, Moran, Ruyu e Boyang diventano amici, legati da un rapporto profondo ma venato di gelosia. Un giorno un misterioso avvenimento li sconvolge: Shaoai, studentessa universitaria e dissidente, viene avvelenata, e la sua salute rimane compromessa. A distanza di anni, i tre amici vivono vite separate: Moran fa la ricercatrice in una sperduta azienda farmaceutica del Massachusetts e ha lasciato il marito; anche Ruyu si è trasferita negli Stati Uniti e lavora per ricche signore californiane senza mai stringere alcun vero legame; Boyang invece è rimasto a Pechino, è un immobiliarista di successo e lotta con la sua incapacità di amare. Quando vengono a sapere che Shaoai ha perso la vita, sono costretti a confrontarsi con segreti mai confessati: cos’è successo davvero alla loro amica? E soprattutto, chi tra loro porta la responsabilità di quella tragedia? In una narrazione che si muove tra passato e presente, tra Cina e Stati Uniti, Yiyun Li intesse una storia di perdita e memoria, senso di colpa e desiderio di redenzione. "Più gentile della solitudine" racconta il peso delle scelte giovanili, l’ombra lunga degli eventi storici sulle vicende personali e il fragile equilibrio su cui si regge il nostro presente che, nutrito dagli errori del passato, può guadagnare consapevolezza e forza, come ogni vero progetto d’amore.

RECENSIONE

Più gentile della solitudine di Yiyun Li è un libro che ci costringe a guardare cosa resta quando l’amore non basta, quando il tempo non guarisce, quando la colpa non si dice. È un romanzo che respira nel silenzio e nell’assenza, che s'incunea nella solitudine come in un cuore spento. 

Shaoai, una giovane idealista, è rimasta per oltre vent’anni in uno stato vegetativo, dopo essere stata avvelenata misteriosamente. E con la sua morte, improvvisa e sorda, si riaccende un passato che i sopravvissuti avevano sepolto in vita: Boyang, l’amico che in qualche modo è quello che resta più legato a lei; Moran, la ragazza fragile che ha lasciato la Cina per nascondersi dietro una nuova identità americana; Ruyu, l’orfana allevata da zie cattoliche, il volto della distanza, la voce dell’indifferenza. 

Ma Più gentile della solitudine non è un giallo. L’autrice non vuole svelare il colpevole: vuole svelare le colpe. Quelle non dette. Quelle taciute. Quelle che continuano a vivere nei gesti quotidiani, nella distanza tra due parole, in uno sguardo abbassato. 
Il romanzo ci chiede: chi ha ucciso Shaoai? Ma ancor più: chi ha smesso di amare, chi ha smesso di lottare, chi ha scelto la solitudine come unica difesa? 

Ruyu è forse il personaggio più inquietante: un’enigmatica figura che ha scelto di non sentire, di non toccare, di non appartenere. È cresciuta in un’educazione monastica e senza affetto, convinta di essere “diversa” e perciò autorizzata a vivere nell’assenza. È la personificazione dell’alienazione, della purezza come scudo, della fede svuotata di compassione. Non è né buona né cattiva: è qualcosa di più radicale. È indifferente. E in questa indifferenza c’è la vera minaccia. 

Moran, invece, è una ferita aperta. La sua vita è una lunga espiazione silenziosa. Non sappiamo se sia stata lei a fare del male a Shaoai, ma viviamo il suo rimorso come se fosse reale. In America, vive da sola, come madre, come donna, come essere umano, eppure non vive davvero. È intrappolata in un’esistenza dimezzata, consumata dal senso di colpa, incapace di stringere legami, se non quelli che ha paura di perdere. La sua è la colpa che non trova linguaggio, e che perciò diventa muta, ma letale. 

Boyang è il più umano, forse. Cinico, disincantato, superficiale. Ma è l’unico che tenta, seppur in modo disordinato, di ricollegare i pezzi, di comprendere. È l’uomo che ha scelto il successo invece dell’anima, ma che ogni tanto torna al luogo del delitto con uno sguardo opaco di nostalgia. Non ha salvato Shaoai, ma ha fatto qualcosa di molto diverso e più allucinato, quasi delirante nella sua patetica follia. 
“Il primo di ogni mese Boyang spediva due mail separate, informando (ricordando) che Shaoai era ancora viva.” Non era un gesto di affetto verso Shaoai, ma un tentativo di tenere aperta la ferita condivisa, di mantenere un legame con Moran e Ruyu. Queste mail servivano a preservare il passato, non a curare la persona. Anche dopo la morte di Shaoai, Boyang non affronta apertamente la verità. Non domanda a Moran né a Ruyu se siano state coinvolte. Questo silenzio dice molto: è omertà? È paura della verità? O forse è complicità passiva, tipica di chi vuole restare spettatore della colpa? “Quando il medico aveva constatato la morte di Shaoai, Boyang non aveva provato né dolore né sollievo, ma rabbia.” Una rabbia egocentrica, perché il passato non si è chiuso come aveva sperato, perché non ha avuto il suo epitaffio perfetto. Non per Shaoai, ma per sé. “La tenacia di Boyang aveva protetto quell’alternativa mai realizzata. E il silenzio di Moran e di Ruyu, lui pensava, ne era la dimostrazione.” Il legame con Shaoai, in fondo, è simbolico. Rappresenta la vita che non ha avuto, la giovinezza spezzata, la verità mai detta. Non è affetto: è memoria cristallizzata, identità bloccata, fedeltà a un dolore che definisce chi è diventato. Boyang non mantiene un legame diretto con Shaoai, ma: resta nella città dove lei vive e muore, invia mail per ricordare che è viva (più per se stesso che per lei), si confronta con il suo passato senza mai affrontarlo davvero, e prova rabbia quando la sua presenza (anche come simbolo) sparisce. 

Yiyun Li scrive con uno stile sobrio, quasi chirurgico, eppure ogni frase porta il peso di ciò che è stato taciuto. Il suo linguaggio è essenziale, ma sotto la superficie brucia un’intensità straziante. L’assenza di pathos è una scelta: è nella freddezza che il dolore diventa insostenibile. Il romanzo è anche un atto politico. Sullo sfondo c’è la Cina del dopo Tiananmen, il trauma collettivo che riflette quello individuale. Shaoai era una giovane idealista: la sua voce spezzata rappresenta quella di un’intera generazione tradita. La memoria, come il corpo paralizzato, viene dimenticata perché scomoda. E l’unico modo per sopravvivere è non ricordare, oppure ricordare male, oppure far finta che non sia successo nulla. La storia personale si fonde con quella storica: entrambe sono fatte di omissioni. 

La solitudine che dà il titolo al romanzo è una condizione esistenziale, non un rifugio. Nessuno dei personaggi riesce davvero a vivere in relazione. La solitudine non è gentile: è un’arma, una punizione, una forma estrema di sopravvivenza. Non è terapeutica, è corrosiva. È ciò che resta quando la vita non trova più voce. 

Alla fine, Più gentile della solitudine è un’epigrafe sulla memoria e sull’impossibilità del perdono. Nessuno si salva. Nessuno viene assolto. Nessuno impara davvero. È un romanzo sulla perdita dell’umano, sulla desertificazione dei sentimenti, sull’ombra lunga che un errore, un gesto, una omissione possono gettare su una vita intera. 
Eppure, proprio nel dolore senza soluzione, nella vita congelata dei personaggi, nella loro incapacità di cambiare, sentiamo la forza della letteratura: la capacità di guardare in faccia l’ombra, di abitarla, di darle forma. Così da farla esistere per sempre.

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