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venerdì 5 luglio 2024

Recensione: UNA VITA, ANCORA di Theodor Kallifatides

Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice Voland, oggi vi parlo di Una vita, ancora di Theodor Kallifatides.

una vita, ancora

di Theodor Kallifatides
Editore: Voland
Pagine: 128
GENERE: Narrativa straniera
Prezzo: 7,49€ - 16,00
Formato: eBook - Cartaceo
Data d'uscita: 2024
LINK D'ACQUISTO: ❤︎
VOTO: 🌟🌟🌟🌟 

Trama:
Un piccolo libro folgorante sulle migrazioni, geografiche e interiori, che segnano un’esistenza, una meditazione profonda e coinvolgente su come riscrivere sé stessi in un mondo che cambia. A settantasette anni lo scrittore protagonista, emigrato in Svezia all’età di ventisei, sente di aver perduto l’ispirazione. Sfinito dal suo ultimo romanzo, in rotta con le parole che sembrano non corrispondergli più, decide di ritirarsi e di vendere il suo amato studio nel centro di Stoccolma. Ma una volta in pensione fatica ad abituarsi alla nuova vita: rinunciare agli incontri nel tragitto verso la stazione, condividere il giornale mattutino con la moglie, inventarsi una nuova routine. E il pensiero della Grecia natia si fa sempre più insistente…

RECENSIONE

Una vita, ancora, dello scrittore greco Theodor Kallifatides è un libro breve, scorrevole, tenero ed empatico, capace di essere luminoso e ricco di speranza ma anche vivido e realistico all’occorrenza. 

L’autore ha settantasette anni ed è in crisi. Le prime pagine del romanzo sono attraversate da una leggera nostalgia nei confronti di ciò che non riesce più a fare: scrivere. Pensa a tutti gli scrittori che prima o poi hanno smesso di scrivere e comincia a convincersi che arrivati a una certa età si debba necessariamente smettere, forse per una questione biologica o semplicemente perché si perde l’ispirazione come si perdono gli anni. 

È credibile? No, io non ci ho creduto, anche se Theodor, che parla sempre in prima persona, è capace di rendersi subito simpatico. Insomma, con naturalezza, lo senti vicino come un nonno, o un amico che ti sta raccontando a cuore aperto le sue preoccupazioni. Ne parla con qualche amico e alla fine giunge alla conclusione che forse non può fare niente. Forse è un problema suo che non riesce più a vivere con serenità quel lavoro che lo ha accompagnato per tanti anni. 

È un emigrato. È nato in Grecia ma l’ha lasciata quando aveva solo 26 anni e ha vissuto tutto il resto della sua vita in Svezia. Due paesi diversi, dalle culture opposte e soprattutto con un percorso agli antipodi che ha visto la Grecia crollare sotto il peso del tracollo economico e sociale mentre la Svezia si è sempre imposta come paese libero, moderno, capace di fruttare la sua economia e proponendo un’immagine sociale che ha fatto invidia a tutto il mondo. 

Da giovane, Theodor ha vissuto la sua vita e ha scritto tanto, utilizzando una lingua che non era la sua; ha imparato lo svedese e ha scritto in questa lingua ed è stato molto apprezzato e ora è conosciuto in tutto il mondo. Nonostante ciò sa bene che emigrare significa lasciare un pezzo di sé da qualche parte, perdere comunque qualcosa a favore di altro. Devi barattare la tua lingua per essere accettato in un nuovo mondo, pregando, a mani giunte, di non dimenticarla per non dimenticare te stesso. "L’emigrazione è una sorta di suicidio parziale. Tu non muori, ma sono molte le cose che ti muoiono dentro. Non ultima la tua lingua. Per questo sono più orgoglioso di non aver dimenticato il greco che di aver imparato lo svedese.” 

Ma c’è qualcosa che non va. Arrivato alla soglia della vecchiaia, comprende che manca qualcosa al suo percorso, o forse, è stato lui stesso a sottrarlo. Non sa decidersi. Forse dovrebbe chiedere a qualche critico se vale la pena riprendere a scrivere, ma poi ci pensa, e capisce che la sua vita da scrittore è stata troppo lunga e troppo importante per lasciare a un estraneo la possibilità di decidere del suo futuro. Insomma, la scrittura è un pezzo della sua carne, è incastrata tra le sue ossa, insieme a tutti gli altri organi e nessuno può decidere che cosa farne. – “Ma io non potevo. Facevo parte da troppo tempo dell’ambiente letterario per prenderlo davvero sul serio. La decisione di scrivere o non scrivere era troppo importante per lasciare che fosse qualcun altro a decidere per me.” 

Rinnegare lo scrivere è punire se stesso per qualcosa che non ha fatto. Ricorda con calore i tempi passati quando aveva l’ispirazione e poteva scrivere ovunque, in qualsiasi paese e in qualunque casa, stanza, o spazio; si sentiva forte, ispirato da tutto ciò che lo circondava ma quando ha cominciato a pensare a se stesso come a uno scrittore vero e proprio, ha smesso di scrivere. La scrittura è fantasia, è una fonte inesauribile che scaturisce dall’inconscio e poi arriva alla mente; è qualcosa che non puoi controllare, o comandare a bacchetta. Non puoi nemmeno dargli un tempo; la scrittura si prende il suo tempo e non te lo dà indietro. Quindi, addomesticarla, significa ucciderla.“Quando si comincia a difendere il proprio scrivere, quando si comincia a essere lo scrittore, quando si appende sé stessi alla parete, allora si è già finiti.” 

Un amico gli dice che un uomo, senza il lavoro, non è niente. Con questa frase, lo getta ancora di più in crisi, e Theodor decide che deve cambiare vita; deve fare qualcosa per scrollarsi di dosso l’apatia e affrontare la rinascita. – “Senza il lavoro la vita è sprecata. Ecco l’orribile conclusione cui era arrivato.” 

Parte e va in Grecia, ad Atene, e poi nel paese dove è nato. Dopo tanti anni vissuti in Svezia, ciò che trova nella sua terra lo getta nella delusione più totale. La povertà regna sovrana. Il tasso di disoccupazione aumentato a dismisura, gente che chiede aiuto e un numero esorbitante di ambulanti. Per le strade, l’odore dei profumi costosi è sostituito dal “tanfo umano” di tutta quella gente in evidente difficoltà.“Mendicanti ovunque. Alcuni erano mutilati e mostravano le loro ferite. Donne stese per terra con in braccio bambini piccoli. Giovani uomini di bell’aspetto che cadevano in ginocchio imploranti. E noi che passavamo oltre, alcuni pieni di vergogna, altri con forzata indifferenza.” 

Theodor si ritrova con il cuore spezzato soprattutto quando comprende che nemmeno cambiando paese e tornando alle sue origini, ritrova l’ispirazione. Era abituato a chiudersi nella sua stanza, con il computer davanti, ma negli ultimi tempi, non riesce a scrivere nemmeno più una parola. Il dolore per la perdita dell’ispirazione si unisce a quello per il suo paese. Si rammarica di avere paura a camminare da solo per la strada perché questo conferma la cosa più triste: la sua estraneità. Il non sentirsi più al sicuro dove è nato, decreta il suo senso di disagio. E in più si aggiunge la rabbia perché nessuno ha voluto davvero aiutare la Grecia in quanto gli altri paesi erano troppo presi a guardare i loro tornaconti economici. – “Se l’Europa avesse mostrato un po’ più di benevolenza, le cose si sarebbero sistemate per tutti i profughi. Ma ognuno voleva i suoi soldi.” 

Il potere della parola è scritto dentro il nostro destino; è questo quello che ho percepito leggendo questo libro. Lo stile convince, la prosa è semplice e lineare, la storia raccontata è chiaramente reale, veritiera e si sente a ogni passo, consumato e adorato come se fosse quasi una commemorazione di ciò che Theodor ha fatto durante la sua vita per arrivare fino a qui. 

Questo libro ha uno scopo. Lo scoprirete solo se arriverete alla fine. Non è solo l’atto di adorazione di un uomo che ha sempre amato scrivere e che lo ha fatto attingendo a una fonte naturale che scaturiva dentro se stesso, ma è anche una forma d’amore verso chiunque ami la parola scritta. Come me. Ecco perché l’ho sentito molto vicino, e mi sono ritrovata in tanti pensieri esposti, anche con assoluta sincerità. 

Le emozioni come la rabbia, lo sconforto, la paura vengono mitigate da una sorta di sicurezza sotterranea: la consapevolezza, forse, che niente mai è perduto. La fiamma dell’ispirazione è lì, Theodor l’avverte e vuole averci ancora a che fare, ma manca un piccolo passo per raggiungerla. Un passo che comporterà un cambio di rotta, ma soprattutto la presa di coscienza che bisogna tornare alle origini. Anzi, no, sono le origini, che lentamente, con un percorso che all’inizio non riconosciamo e che ci spaventa anche, ci riportano di nuovo da loro. 
Il richiamo di ciò a cui apparteniamo è sempre collegato al battito del nostro cuore. 
Per questo non ce ne accorgiamo. 
Ma è sempre lì, e quando arriva il momento, la voce si sente e ci riporta, finalmente, a casa.

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