Buongiorno cari lettori! Oggi vi parlo del secondo libro che leggo dell'architetto e filosofo Roberto Peregalli. La corazza ricamata. I greci e l'invisibile è un saggio incentrato su testi greci, appunto, che racconta di un viaggio attraverso il tempo dove è posto in auge un contrasto fondamentale e molto attuale: l'invisibile e il visibile. Come si risolve questo scontro/incontro per l'essere umano mortale e destinato a morire?
di Roberto Peregalli Editore: Bompiani Pagine: 152 GENERE: Saggio Prezzo: 9,00 € Formato: Cartaceo Data d'uscita: 2008 Link d'acquisto: ❤︎ VOTO: 🌟🌟🌟🌟🌟
Trama:
Tra Omero e Platone si verifica, nella cultura greca, un capovolgimento dell'idea di conoscenza: per Omero conoscere equivale a vedere, come per i filosofi presocratici e ancora per Erodoto e Ippocrate; ma per Piatone (e per la lunga tradizione idealistica che da lui prende, le mosse) ciò che si vede è un inganno, la vera conoscenza è quella delle cose invisibili. Passando per il sapere misterico della Grecia pre-socratica, per il mito di Edipo, in cui il tema della vista e della cecità ha un ruolo centrale, e per quello delle sirene, il libro indaga il rapporto, a volte tragico, tra sapere e vedere, mettendo in luce le radici antiche di dibattiti concettuali tuttora in corso.
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RECENSIONE
La corazza ricamata. I greci e l’invisibile è un saggio scritto dall’architetto Roberto Peregalli, incentrato sull’analisi di numerosi testi greci rapportandoli al concetto di vista e di conoscenza.
Un racconto che ci spiega a volte con uno stile semplice, altre più articolato, la concezione che avevano i greci della conoscenza e come questa concezione è cambiata nel corso dei secoli, anche e soprattutto in rapporto alle più alte personalità della letteratura e della filosofia.
Le prime pagine si concentrano su Omero e in particolare sulla sfavillante armatura di Achille, realizzata dal grandioso Efesto – L’abilissimo fabbro aveva forgiato delle armi perfette, troppo belle per essere viste da un uomo. Lo scudo, la corazza, l’elmo, gli schinieri.
L’armatura era così scintillante che lo accecò.
Quindi per i Greci la conoscenza è collegata alla vista e infatti vengono chiamati Il popolo dell’occhio. Tutto ciò che è nascosto contiene la verità. Ma la verità ha ovviamente un prezzo molto alto da pagare. L’invisibile e la verità sono complementari perché il vero ha sempre origine in ciò che non si vede. Il visibile, a questo punto, è necessariamente dotato di immense profondità a cui si accede non senza sacrificio.
Sono gli dei coloro che detengono questa conoscenza, ma ai mortali cosa succede? Possono avvicinarsi all’immenso sapere cogliendo qualche barlume di certezza in mezzo a un buio senza confini?
Sì, attraverso i fili magici, il sonno, la nebbia, le anime, i sogni. Sono figure che confinano con l’invisibile. Accennano ma non dicono.
I fili magici sono controllati dalla Moira, colei che articola i fili del destino degli uomini. Fili che non sono altro che un inganno, perché nulla può l’uomo contro il destino che è stato scritto per lui. Nulla può contro la Morte.
Il sonno è un dio, fratello della Morte. Il suo regno è la notte. E come la Moria, anch’esso è fatto di inganno, perché illude i mortali distraendoli dai loro affanni. È un illusione che ti fa dimenticare ciò che non può essere dimenticato. Ed è molto simile alla morte.
La nebbia è anch’essa uno strumento divino atto a ingannare.
Le anime e i sogni, invece, relazionano il mondo dei vivi con quello dei morti: Il regno del sogno costituisce il legame tra i mortali e le ombre dei morti.
Le anime come i sogni sono fonte di invisibile, entrano in contatto con i mortali, e sono come fantasmi che con le loro voci sussurrano agli uomini qualcosa del loro destino. Poiché sono immagini, visioni, spesso possono non riflettere la verità e trarre in inganno proprio come tutti gli altri.
I sogni hanno commercio con i mortali nel sonno. La loro presenza annuncia enigmaticamente il futuro. Le anime invece, se raramente appaiono ai vivi nel sonno, sono l’unica traccia che resta dei mortali dopo la morte. La loro presenza fonda l’essenza della vita degli uomini come ombra.
Per natura gli uomini non possono vedere, perché la loro vista è annebbiata. Secondo Omero il sapere si gioca tutto nello sguardo, ma c’è una concezione molto più profonda, intimista, notturna che si rivela attraverso i Misteri. Essi sono come un viaggio e colui che vi è iniziato è colui che avrà una visione. Essi sono talmente terribili – come ogni assoluta verità – che per vederli è necessario chiudere gli occhi. Sono una rivelazione impossibile da tradurre in parole – indicibile. Sembra un enigma insolubile. Ma la conoscenza è un enigma. Vedere significa conoscere, in quanto vedere è chiudere gli occhi.
Sono tre gli oggetti che accennano ai Misteri: il velo, lo specchio e la maschera.
Il velo introduce al buio, avvicina all’indicibile coprendo lo sguardo, chiudendolo al mondo. Parete invisibile, allontana le cose per renderle più vicine. Non a caso il velo si usa nelle nozze e nei riti funebri. Lo specchio, come il velo, è la membrana attraverso cui l’essenza delle cose diventa visibile.
Lo specchio è simbolo dell’illusione, perché quello che vediamo nello specchio non esiste nella realtà, è soltanto un riflesso. Ma lo specchio è anche simbolo della conoscenza, perché guardandomi nello specchio io mi conosco. Tutto il conoscere è portare il mondo dentro uno specchio, ridurlo a un riflesso che io possiedo.
Infine, la maschera, come i precedenti, è apparenza. Fa intuire che c’è qualcosa sotto che però non si vede, quindi resta celato. Nietzsche infatti affermava – Tutto ciò che è profondo ama la maschera – perché la maschera conserva, protegge qualcosa di molto più abissale e sconosciuto. E di vero.
L’abisso, appunto. Per Platone esistono due tipi di conoscenze: quella genuina, che riguarda il lato profondo delle cose, quelle nascoste, e la conoscenza opaca che riguarda il mondo apparente. E quindi – Vedere non basta. Per sapere è necessario oltrepassare ciò che si vede.
E oltrepassandolo diventa chiara la consapevolezza che quello che normalmente vediamo è solo una superficie. La verità è nell’abisso. Sta all’uomo scegliere di calarsi in esso.
Eppure la contrapposizione tra superficie e abisso e tra visibile e invisibile da cui siamo partiti, secondo Platone, si esplicita chiaramente nell’antinomia che costituisce la stessa identità dell’uomo: egli è composto da una parte visibile che è il corpo e una parte invisibile che è l’anima.
Ciò significa che l’uomo già possiede in sè, nella sua stessa essenza, un frammento dell’invisibile, quindi della verità. Il disvelamento non è altro che l’appropriazione di questa verità già insita in ciascuno di noi.
È l’anima, dunque, a custodire questo frammento e quando il corpo si staccherà da essa, allora si avvicinerà all’invisibile. In altre parole, è la morte a rendere possibile il sapere dell’anima.
Solo morendo, giungeremo alla conoscenza assoluta.
Così facendo, non esiste più la differenza tra visibile e invisibile così come era concepita dai greci. Non esiste più la concezione che gli occhi siano l’accedere al sapere. Nasce, al contrario, una concezione moderna che identifica l’anima come la verità dell’uomo per cui – Il destino dell’anima si lega all’invisibile. L’uomo si compone di due parti. Una, caduca e visibile, si chiama corpo; suoi organi sono i sensi, strumenti ingannevoli di conoscenza. L’altra, perenne e invisibile, si chiama anima; il suo organo è la mente, unico strumento valido di conoscenza.
I sensi, dunque, che fanno parte del corpo, sono fonte di inganno, possono mentire, e condurci a una falsa verità, impressioni sbagliate, percezioni inesatte. Ma c’è qualcosa dentro di noi che non può mentirci perché è naturalmente fonte di verità ed è l’anima.
Ecco perché – Sapere significa giungere a quel luogo che ai più fa paura, perché per essi è impensabile. Significa morire.
In un mondo come il nostro, in cui lo smarrimento è diventato la nostra peggiore paura di fronte a una realtà che non riusciamo più a comprendere perché essenzialmente sconosciuta, l’occhio, lo sguardo, non bastano più. Guardiamo senza capire.
Più il mondo sembra accessibile, grazie alla tecnologia moderna, ai cambiamenti, al progresso, più le percezioni a nostra disposizione si moltiplicano, più siamo avvolti dalla nebbia e il mondo perde la sua nitidezza.
Ve ne siete accorti anche voi?
Più questi mezzi sembrano avvicinarci, tenerci al caldo, proteggerci, con l’illusione di non farci sentire soli, più perdiamo i contorni della realtà, più ci alieniamo da quello che ci circonda, e ci allontaniamo da noi stessi.
Questo mondo moderno che è tanto potente quanto visibile, onnisciente, presente, ci rende un massa di alienati. Più ci guardiamo e veniamo guardati, più non sappiamo più chi siamo.
Più perdiamo il contatto con ciò che ci appartiene.
Dovremmo iniziare a tenere di nuovo le cose nascoste, a celare le bellezze più profonde, a non rendere tutto così ovvio e scontato. Un po’ più di fondo nascosto non ci farebbe male.
Tutto quello che c’è intorno a noi, non ci appartiene. Non lo sentiamo come nostro, e questo è solo colpa del progresso. Siamo esseri umani che non sanno più chi sono. Nostalgici di qualcosa che non è mai stato nostro, e nonostante ciò, l’invisibile sarà sempre il nostro limite e la nostra meta.
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