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giovedì 18 novembre 2021

Recensione: GLI IPERBOREI di Pietro Castellitto

Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice Bompiani, oggi vi parlo del primo romanzo di Pietro Castellitto, attore e regista, figlio di Sergio Castellitto, alle prese con la sua prima produzione narrativa. Una storia diversa da tutte le altre, che lascia un po' così.

gli iperborei

di Pietro Castellitto
Editore: Bompiani
Pagine: 240
GENERE: Narrativa contemporanea
Prezzo: 11,99€ - 17,10
Formato: eBook - Cartaceo
Data d'uscita: 2021
LINK D'ACQUISTO: ❤︎
VOTO: 🌟🌟🌟 

Trama:
Sono stati il leone, la balena, il cerbiatto, protagonisti di una recita di fine anno nella quale il canguro era scomparso e i suoi amici dovevano ritrovarlo. Adesso hanno quasi trent'anni e vagano nei meandri di una vita dorata: mangiano pesce crudo e patanegra, bevono vini pregiati, fumano essenze, assumono droghe come da bambini consumavano caramelle, navigano, festeggiano, inseguono le arti, tentano la politica. Hanno corpi scolpiti e vestiti costosi, sono figli di primari e giornalisti celebri, di miliardari dai patrimoni solidi e antichi o recenti e sospetti, ma sono anche gli eredi dei ribelli che hanno caratterizzato stagioni gloriose e disperate della storia: coloro che, prosperando nella pace, hanno invocato la guerra, che amando i genitori ne hanno patito le ipocrisie, smascherato le contraddizioni e sognato l'annientamento. Poldo Biancheri, "Ciccio" Tapia, Guenda Pech, Stella Marraffa, Aldo: hanno tutto ma si sentono in trappola, e questa è la loro estate, quella in cui vogliono uscire dal cerchio. È Poldo la voce narrante della loro ebbrezza, della loro sfida: racconta come se vedesse tutto già da una distanza, registrando ogni cosa con fermezza ma senza nascondere la nostalgia per un'infanzia ancora vicina, la rabbia verso padri che si sono presi tutto non lasciando che briciole, la tenerezza per i fratelli e i coetanei capaci di farsi del male per protesta o per amore. Poldo ha portato in barca con sé L'Anticristo, in cui Nietzsche sembra parlare di loro: «Guardiamoci in viso: noi siamo Iperborei... Abbiamo trovato l'uscita per interi millenni di labirinto. Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità...» L'esordio narrativo di Pietro Castellitto è sorprendente quanto l'opera d'arte scagliata dai suoi protagonisti dentro una piscina, doloroso come la voce di un figlio che soffre eppure capace di momenti di incanto, come gli occhi di un cerbiatto che brillano mentre la notte si spegne.

RECENSIONE

Gli iperborei di Pietro Castellitto. Una storia diversa da tutte le altre, con uno stile che a volte può apparire confusionario, anche perché l’io narrante è quasi sempre sotto effetto delle droghe, ha appena superato un tumore, ed è avvolto da un’aurea di nostalgia perenne. 
Non è un romanzo commerciale. Racconta la vita di cinque amici, Poldo, Guenda, Stella, Aldo e Ciccio, molto ricchi, figli di papà, alle prese con un’esistenza in cui oltre a esserci la droga, il sesso, questo senso di amicizia per lo più traballante, c’è anche un suicidio, e fatti apparentemente inspiegabili che tentano di bucare il velo doppio strato della noia che sembra affogare le loro gole e inacidire i loro istinti. 

Sono giovani, ma forse nemmeno più tanto. Sono dei trentenni alle prese con esistenze vissute sempre al limite, ma mai quello reale e crudo, sempre protetti dalle famiglie, sempre consapevoli del loro lusso e della loro indifferenza. 
Il racconto ha un stile particolare, l’uso diverso dei font, un linguaggio che appare precario, sull’orlo di autodistruggersi perché la mente è annebbiata e il cuore incapace di continuare a battere. 

 
Tanta ombra dietro alle spalle e davanti agli occhi la luce mortale dei trenta.

Il passato e il presente si confondono nella mente di Poldo, il narratore. Lui descrive ciò che lo circonda, le fughe, le menzogne, i disastri, le morti e le violenze che girano intorno alla vita di questi personaggi, che rappresentano una fotografia un po’ offuscata ma non per questo meno pregnante, della nostra società. 

In un’epoca in cui quasi tutti gli scrittori preferiscono raccontare storie brutali, in cui i protagonisti appartengono a classi sociali basse, orfanotrofi, criminalità, vittime del destino, lottatori di vite ingiuste e alla fine quasi sempre degni di riscatto, Pietro Castellitto sceglie una strada molto diversa. Il suo racconto non parla di redenzione, né auspica a una salvezza. Non c’è povertà, non c’è lotta per la sopravvivenza, non ci sono ingiustizie. C’è solo un mondo dorato e brillante che nasconde crepe insanabili come quelle che si formano dentro ognuno di noi. 

C’è evidentemente un alone autobiografico, la volontà di raccontare qualcosa come se il protagonista e quindi l’autore stesso del libro ci fosse già passato, e ne stesse parlando con una certa consapevolezza, ammissione, quasi rassegnazione. 
Il sentimento che colpisce è la nostalgia. Si sente in modo vivo l’intenzione di trasmettere un senso precario di emotività che guarda al passato perché il presente non è così forte da trattenerci lontano. 

Ciò che emerge è che questi ragazzi, specchio di tanti e tanti giovani, vivano vite senza un senso apparente, incapaci di prendere una qualsiasi posizione, radicale o meno, portatori di un’assenza di valori che non ha una via d’uscita. Forse perché mancano le basi. Ammettiamolo pure, mancano i modelli. I genitori stessi sono figure inesistenti, cornici di carta pronte a distruggersi in mille pezzi. 

 
Io questo sono: una morte in corsa, una vita in stallo.

Forse questo romanzo è scritto talmente bene nel voler trasmettere l’inconsistenza dell’anima di questi personaggi, che, in fin dei conti, di essi arriva poco al lettore. Voglio essere onesta. Nessuno di loro mi ha coinvolto in modo particolare. Anzi, li ho trovati freddi, vuoti, distaccati. E questo credo sia merito dell’autore. 

Se voleva creare un mondo in cui questi ragazzi dimostrassero la loro inettitudine, quasi un’incapacità di vivere e di viversi al di fuori di feste lussuose e di droghe che ti tengono bombardato il cervello per tutto il tempo, ci è riuscito alla grande
Il lettore prova una sorta di fastidio verso Poldo e la sua combriccola. Non li comprende e non li condivide. E questo credo sia un atto di coraggio estremo da parte di Castellitto. 

Scrivere di donne, uomini, o bambini, fragili, vittime di violenza, di miseria o del destino infausto e crudele, ottenendo quasi naturalmente, come un atto dovuto, l’empatia e la simpatia del lettore, beh, quello è facile. Ma sfidare il senso comune, scrivendo di personaggi che non sono né eroi, e nemmeno antieroi, ma semplicemente inconsistenti, ci vuole molto più coraggio e determinazione. 
Solo per questo, forse, andrebbe letto.

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