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venerdì 22 agosto 2025

Recensione: UNA PSICOANALISTA A TEHERAN di Gohar Homayounpour

Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice Raffaello Cortina, oggi vi parlo di Una psicoanalista a Teheran di Gohar Homayounpour.

UNA PSICOANALISTA A Teheran

di Gohar Homayounpour
Editore: Raffaello Cortina
Pagine:156
GENERE: Romanzo
Prezzo: 9,99€ - 16,00
Formato: eBook - Cartaceo
Data d'uscita: 2025
LINK D'ACQUISTO: ❤︎
VOTO: 🌟🌟🌟🌟 

Trama:
È possibile praticare la psicoanalisi nella Repubblica islamica dell’Iran? Gohar Homayounpour, psicoanalista iraniana formatasi in Occidente, risponde di sì. Tutta la cultura iraniana ruota attorno al racconto. Perché mai, se gli iraniani avvertono con tale forza la necessità di parlare, non dovrebbero essere capaci di libere associazioni? Inizia così una narrazione affascinante, in cui il racconto autobiografico si intreccia con le storie dei pazienti. L’autrice evoca il piacere e il dolore di ritornare nella terra natale e le angosce che assillano lei, per prima, e altri iraniani. Nel racconto si aprono di continuo scorci che lasciano intravedere le sedute con i pazienti: una celebre artista sogna di essere abbandonata e vuole stare sulla sedia dell’analista anziché sdraiata sul lettino, una giovane donna avvolta nel chador dice la propria vergogna per aver perso la verginità, un camionista grande e grosso sogna di fare sesso con sua madre… L’opera di Homayounpour, come scrive Abbas Kiarostami, “spalanca finestre e getta luce su quanto vi è di oscuro nell’anima umana”.

RECENSIONE

In un mondo che tende a erigere muri, a esotizzare l'altro e a semplificare complesse realtà in slogan da notiziario, Una psicoanalista a Teheran di Gohar Homayounpour. è un libro diverso da tutto il resto, un vero terremoto per tanti aspetti. Si presenta come un viaggio nella psiche umana, spogliata delle sue etichette culturali e geografiche, per scoprirla universale, fragile e disperatamente alla ricerca di senso. 

L'opera si apre con una domanda tanto audace quanto fondamentale: "È possibile praticare la psicoanalisi nella Repubblica islamica dell'Iran?". La risposta non è un semplice "sì", ma un intero libro che funge da dimostrazione vivente, un torrente di libere associazioni che trasforma la pagina scritta in un lettino analitico su cui il lettore stesso è invitato a stendersi. Tutto si basa sul racconto del ritorno. 

L'autrice, formatasi come analista in Occidente, torna nella sua Teheran dopo vent'anni e si scontra con una delle verità più dolorose della condizione umana: il "paradiso perduto" è irrecuperabile, non perché sia cambiato, ma perché esisteva solo nella nostra fantasia. L'autrice, con una sincerità disarmante, ci confida il suo spaesamento, il sentirsi un'estranea nella propria casa. In una delle frasi più significative, riassume questa scissione identitaria: "Lontana dall'Iran, nessuno è stato più iraniano di me; qui in Iran, nessuno lo è meno". Questo non è solo il dramma dell'emigrante, ma la metafora della nostra stessa esistenza. 

Chi non ha mai provato a fuggire da una parte di sé, per poi scoprire, tornando sui propri passi, che quella parte è ancora lì, in attesa? L'autrice analizza questo sentimento attraverso la figura di Ulisse, immaginando la sua delusione non solo nel trovare Itaca cambiata, ma nel constatare quanto poco lui stesso fosse cambiato, nonostante le sue epiche avventure. Il suo ritorno non è solo un confronto con la sua terra, ma un "ritorno del rimosso", una resa dei conti con le illusioni, le difese e le identità costruite per sopravvivere lontano da casa. È qui, nella stanza d'analisi, che il libro compie il suo atto più rivoluzionario. 

L'autrice si scaglia contro il "rifiuto affascinato" e l'"orientalismo" di un Occidente che si aspetta storie "pepate" di oppressione e mistero. Ciò che ci offre, invece, è la prova schiacciante che "il dolore è dolore ovunque". Le voci dei suoi pazienti compongono un coro che smantella ogni cliché. 
Incontriamo la Signora N., una pittrice famosa, colta e provocatrice, che sfida l'autorità dell'analista sedendosi sulla sua poltrona. È una donna che lotta con la sua immagine, con una madre anaffettiva sognata come una ballerina circondata da uomini, e che incarna la tensione tra l'essere "straordinaria" e la paura della propria "banalità". Il suo percorso analitico, fatto di avvicinamenti e fughe, di fiori e coltelli, è la spina dorsale emotiva del libro. Ma non è sola. 

Sul suo lettino si alternano figure indimenticabili. Un 
camionista grande e grosso, l'epitome del macho, che in preda alla vergogna confessa sogni incestuosi con la madre, chiedendo all'analista di "guarirgli l'anima".
Una 
giovane donna avvolta nel chador, che piange la perdita della verginità come la perdita dell'unica cosa che una donna non dovrebbe mai perdere, sentendosi indegna persino di mangiare il pane dei suoi genitori.
Un'
architetta di successo che sviene sui cantieri, come una moderna Blanche Wittman, la "Regina delle isteriche" ritratta nel quadro che Freud teneva sopra il suo divano. Una giovane giornalista che rivendica con forza il suo diritto al piacere e a una sessualità attiva, scontrandosi con uomini che la vorrebbero passiva.


 
Questi ritratti, vividi e compassionevoli, dimostrano che la sessualità, il complesso edipico e la nevrosi non sono monopoli occidentali, ma il tessuto stesso dell'esperienza umana, che emerge con la stessa intensità sotto il cielo di Teheran come sotto quello di Vienna o Parigi.

Il mito di Edipo, fondamento della psicoanalisi occidentale in cui il figlio uccide il padre per prendere il potere, viene messo a confronto con il grande mito persiano di Rostam e Sohrab, dove è il padre a uccidere inconsapevolmente l'amato figlio. Questa tragica inversione, secondo l'autrice, modella una fantasia collettiva diversa, una cultura del "lutto", della malinconia per un futuro che viene perennemente sacrificato, una ribellione che, sapendo di rischiare la morte, rimane latente. 

Questa ricerca di senso è indissolubilmente legata a due figure maschili: suo padre e Milan Kundera. Il padre è "il traduttore", colui che ha portato Kundera in Iran e che ha insegnato alla figlia l'arte di trasporre mondi. L'atto della traduzione diventa così la metafora perfetta del lavoro analitico: un ponte gettato tra linguaggi, tra l'inconscio e il conscio, tra culture. Leggere Kundera è stato per lei un modo segreto di comunicare con il padre, un atto d'amore indiretto. 

Una psicoanalista a Teheran è anche un libro sull'amore. Non l'amore romantico, ma quello che, secondo Lacan, definisce l'essenza stessa della cura: "Amare è dare quello che non hai". 
Non si tratta di dare certezze, consigli o doni materiali, ma di offrire la propria "mancanza", la propria vulnerabilità, fragilità, la parte più nuda e umana di noi stessi, per creare uno spazio in cui l'altro possa esistere e sentirsi al sicuro. Questo libro è l'incarnazione di tale amore. 

Gohar Homayounpour ci dona le sue incertezze, le sue paure, la sua lotta per trovare un posto nel mondo. Non si erge a maestra, ma si siede accanto a noi, e in questa condivisione di fragilità, avviene il miracolo. Ci insegna che la psicoanalisi non è una tecnica asettica, ma una "passione", un incontro umano che richiede coraggio, onestà e un'infinita capacità di ascolto. 
Ci lascia con la consapevolezza che, in qualsiasi lingua si parli, in qualsiasi città si viva, la ricerca più profonda è sempre la stessa: quella di una parola che porti luce nell'oscurità, di un orecchio che ascolti, di un cuore che comprenda.

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