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venerdì 18 luglio 2025

Recensione: CUORE CAVO di Viola Di Grado

Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice La nave di Teseo, oggi vi parlo di Cuore cavo di Viola Di Grado.

cuore cavo

di Viola Di Grado
Editore: La nave di Teseo
Pagine: 192
GENERE: Narrativa contemporanea
Prezzo: 9,99€ - 18,00
Formato: eBook - Cartaceo
Data d'uscita: 2025
LINK D'ACQUISTO: ❤︎
VOTO: 🌟🌟🌟🌟 

Trama:
Cuore cavo racconta la vita dopo un suicidio: la nostalgia, la solitudine, i rimpianti di Dorotea Giglio, venticinquenne, che dopo la morte continua a esistere e desiderare e a stare accanto alle persone che ha amato, in una dimensione insieme mistica e terrena. Un aldilà ribollente, dove la natura crudele sfalda i corpi mentre l’anima, ostinata, sopravvive e contempla ciò che è stata. In questa sorta di limbo, Dorotea è condannata a incedere e spiare, vagando in un mondo insieme familiare e straniante in cui i vivi non possono più vedere e sentire chi li ha lasciati, ma i morti restano all’erta, impauriti, in ascolto. Un romanzo coraggioso e conturbante, acceso da una scrittura formidabile per originalità e poesia, da uno dei maggiori talenti della narrativa contemporanea.

RECENSIONE

Viola Di Grado, con il suo romanzo Cuore cavo, pubblicato per la prima volta nel 2013, e adesso ripubblicato dalla casa editrice La nave di Teseo, sfonda violentemente le pareti sottili della letteratura convenzionale e tradizionale sulla morte, immergendoci in un abisso lirico e perturbante che esplora con disarmante crudezza e struggente delicatezza il suicidio e la vita che, stranamente e dolorosamente, prosegue oltre l'ultimo battito cardiaco. 

Un libro, che tanti anni fa, ormai, appariva come una catastrofe fisica ed emotiva, che squarciava il velo della tolleranza emozionale, e che raccontava con raccapricciante verità, una visione oltre la morte che nessuno si sarebbe mai aspettato. Perché, lo sapete, quando si muore, si muore. Voglio dire, mica sappiamo cosa succede dopo, e invece l'autrice decide di raccontarlo, ma non lo fa nel modo usuale, anzi, lo rafforza con tutta una serie di connotazioni terrificanti che mostrano quanto e in che modo ogni cuore, a un certo punto, diventi un cuore cavo. 

Dorotea Giglio, protagonista tragica e magnetica, si suicida a 25 anni. Eppure, come se la morte fosse solo un prologo, lei resta, esiste ancora, osserva e si logora nella contemplazione delle vite altrui che procedono ignare, quasi crudeli nella loro normalità. La morte, in questo libro, non è affatto una fine, ma un’inquietante condizione di limbo cosciente, uno stato di allerta perenne, una dimensione che si allarga, lenta e inesorabile come una malattia, e contamina tutto ciò che Dorotea è stata e continua, in qualche modo, a essere. 

"Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania", scrive l'autrice, e da qui si propaga inesorabile un'angoscia sottile, universale, contagiosa. C'è un'accurata e scioccante rappresentazione della decomposizione fisica della protagonista: "anche il mio cuore, sotto le mosche, era ormai cavo. Come quello di Lidia. Come quello di mia madre e di Clara quando si spegneranno di vecchiaia". L'autrice sfida ogni tabù, descrivendo con una precisione quasi scientifica il decadimento, la perdita dell’identità corporea che diventa una potente metafora della dissoluzione interiore, del vuoto affettivo ed esistenziale

Dorotea è vittima del vuoto emotivo lasciato da una madre depressa, Greta, incapace di darle amore e conforto. La figura materna, così potente nella sua assenza emotiva, rispecchia una sorta di malattia ereditaria, una trasmissione di tristezza e solitudine generazionale, che ha il suo fulcro nella morte della zia Lidia, suicida prima di lei. La depressione è descritta non come un evento, ma come un'eredità crudele che attraversa le donne della famiglia Giglio, un trauma collettivo che culmina nell’atto finale di Dorotea. La madre, Greta, fotografa distante e tormentata, appare incapace di relazioni autentiche, bloccata in un dolore che non è mai stato affrontato né elaborato, condannando la figlia a una solitudine esistenziale estrema. Vi è un senso profondo e lacerante di incomunicabilità che attraversa tutto il romanzo, come una corrente sotterranea, persistente e silenziosa. 

Dorotea, pur vivendo immersa in un mondo apparentemente normale, non riesce mai veramente a connettersi con esso: ogni suo tentativo di avvicinamento sembra destinato a fallire, ogni parola pronunciata o ascoltata resta sospesa in un limbo di fraintendimenti e non detti. La protagonista appare dunque sempre distante, come osservasse la vita attraverso uno spesso vetro che la isola e la rende inaccessibile agli altri. Questa esclusione emotiva, inizialmente sottile e psicologica, diventa via via più concreta e ineluttabile, fino a cristallizzarsi nella sua condizione di defunta. Eppure, la sua coscienza permane, la sua percezione del mondo resta vigile e acutamente dolorosa. L'assurdità tragica della sua situazione risiede proprio in questa consapevolezza continua e tormentosa: Dorotea continua a vedere e sentire, prigioniera di una coscienza lucida che amplifica il suo senso di esclusione e disperazione. Questa continua tensione tra l'esistenza e la non-esistenza, tra l'essere visibili ma ignorati, è ciò che rende la lettura di Cuore cavo profondamente straziante e, al contempo, irresistibilmente coinvolgente. 

La morte nel romanzo è sovversiva perché non pone fine al dolore, ma lo amplifica. Contrariamente a ogni consolazione convenzionale, qui la morte non offre pace né riscatto, ma diviene il terreno fertile per un dolore amplificato, quasi eterno. La condizione post-mortem di Dorotea non è una liberazione, bensì una condanna alla consapevolezza perpetua della propria sofferenza, in un limbo angoscioso sospeso tra desideri inappagabili e impossibilità assolute. 

Viola Di Grado sfida con coraggio il lettore a riconsiderare il concetto tradizionale della morte come quiete definitiva, mostrando una dimensione nella quale il tormento non solo sopravvive, ma viene addirittura intensificato dalla lucida e atroce coscienza del personaggio. Questo ribaltamento radicale della morte è uno dei tratti più originali, profondi e audaci del romanzo, capace di scuotere le fondamenta delle nostre certezze esistenziali e morali. 

Lo stile narrativo di Viola Di Grado è di una bellezza feroce, poeticamente brutale. La sua prosa oscilla tra un lirismo sublime e una descrizione quasi clinica, generando un effetto disorientante ma ipnotico. Frasi come "il mio corpo aveva in comune con i topi molto più di quanto ne avesse con me: per la precisione, avevano in comune il 94,9 per cento del materiale genetico" sottolineano l'acuta consapevolezza della fragilità della carne, della precarietà della vita e della brutalità della morte. La scrittura è quindi, oltre che letterariamente unica, un atto di sovversione filosofica, una sfida al lettore a confrontarsi con i propri tabù, paure e con l’inevitabile crudeltà del mondo. 

Questo romanzo, così profondamente cupo e intenso, obbliga chi lo legge a guardare in faccia l'invisibile, ciò che la società vuole celare, ciò che nessuno osa mai guardare davvero fino in fondo. Cuore cavo è un'opera che batte al ritmo disturbato e intimo di un cuore vulnerabile e spezzato, che ci attraversa con ferocia e tenerezza, costringendoci a confrontarci con le nostre ombre più profonde. 

Viola Di Grado ci fa dono di una cicatrice dolceamara che sussurra verità scomode e bellissime, lasciandoci interdetti di fronte al sentimento imperfetto che ci nasce dentro, a metà tra l'attrazione e la paura che solo il sublime romantico – come sosteneva Burke – riesce a trasmettere: "l'orrendo che affascina."

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