Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice Rizzoli, oggi vi parlo di Sabbie mobili di Veronica Raimo.
sabbie mobili di Veronica Raimo Editore: Rizzoli Pagine: 43 GENERE: Narrativa contemporanea Prezzo: 11,00€ Formato: Cartaceo Data d'uscita: 2025 LINK D'ACQUISTO: ❤︎ VOTO: 🌟🌟🌟🌟
Trama:
"Che vuoi fare da grande?" è la domanda più comune del mondo, tranne se a farla è una madre diversa dalle altre. Una che si trascina per casa con le gambe di piombo, che si veste di tutto punto solo quando piove per inzupparsi in giardino, che si rifugia a letto come fosse l'unico posto sicuro in compagnia dei suoi aiutini farmaceutici. Il figlio, di appena nove anni, di risposte non ne ha. Come potrebbe, se il mondo che conosce è fatto di attese e silenzi, di regole sconnesse, di uccelli rapaci e di ricordi che è meglio non avere? Mentre i suoi coetanei giocano a fare gli adulti, lui spaesato cerca di capire cosa significhi diventare un uomo, in una casa dove gli uomini non ci sono neanche in fotografia e gli oggetti sembrano avere più vita delle persone. Poi arriva la scuola, la scoperta di un mondo ordinato, di regole vere, e dentro di lui cresce ogni giorno la tremenda paura che sua madre, come ha spesso annunciato, lo lasci solo per davvero. Con una scrittura magistrale, ironica e intelligente, Veronica Raimo declina il comandamento "Onora il padre e la madre". Sfiorando il surreale, racconta un'infanzia sospesa tra amore e abbandono, tra realtà e assurdo. Ne nasce una storia che inquieta e commuove, e che ci resta dentro come un'eco perturbante.
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RECENSIONE
"Che vuoi fare da grande?"
La domanda più comune del mondo.
Ma nel romanzo Sabbie mobili di Veronica Raimo, questa diventa la frattura originaria da cui si apre una crepa che non smette di allargarsi. Perché quando a fartela è una madre che trascina per casa le sue gambe di piombo, che vive tra sigarette, farmaci e ombre, che si inzuppa nella pioggia per sentirsi viva e scompare senza un addio, allora quella domanda non ha più niente di comune.
È uno strazio che strazia, avvilisce, demolisce.
Siamo dentro un’infanzia che non ha nulla della spensieratezza, della tenerezza, del gioco. Sabbie mobili è un romanzo che affonda – e ci affonda – in un'infanzia priva di appigli, senza padri e con una madre che esiste a intermittenza, tanto quanto i suoi affetti. Una madre magnetica, disturbata, irrisolta, a tratti poetica e a tratti allucinata. È lei a dettare le regole del gioco – che non sono regole, ma enigmi – in una casa che puzza di assenza, dove vivono più insetti che esseri umani, dove i pensieri si attorcigliano come fili elettrici scoperti.
Il bambino protagonista, senza nome, come a volerci ricordare che chi è trascurato finisce per diventare invisibile, si muove in questo mondo con gli occhi sgranati, con la mente che registra tutto, e con un cuore che si protegge dietro una corazza di silenzi. La sua voce narrante, incredibilmente matura e visionaria, è l’unico appiglio che gli rimane per non sprofondare del tutto in quelle sabbie mobili che danno il titolo al romanzo: sabbie esistenziali, psicologiche, affettive.
La madre è al tempo stesso regina e prigioniera del suo regno di disagio. Una donna affetta da depressione, dal pensiero dissociato, ossessionata dai ricordi che chiama “uccelli rapaci” capaci di spolparti il cervello. Una madre che alterna gesti teneri a sparizioni improvvise, che porta il figlio a cena fuori per poi ubriacarsi ricordando il padre scomparso e farsi cacciare dal ristorante. Che un giorno gli regala un rossetto e il giorno dopo lo inonda di risate isteriche, che si trasformano in pianti inconsolabili. È una figura struggente e disturbante, degna delle migliori pagine di narrativa sulla maternità spezzata. Vivida, così dolorante che ti provoca dolore anche a te, lettore, che ne sei fuori.
Eppure, la sua follia non è mai ridicolizzata. L'autrice la racconta con rispetto, con ironia amara, con tenerezza obliqua. La madre non è mai veramente cattiva, ma non riesce mai a essere nemmeno sufficientemente buona. Non sa essere madre. È una donna che ha perso ogni battaglia prima ancora di iniziarla, e forse per questo il figlio la ama ancora di più.
Una voce narrante che è insieme infantile e lucidissima, poetica e surreale, carica di immagini e simboli che bucano la pagina. Il bambino non può spiegare razionalmente ciò che vive, e allora inventa metafore, sogni, mitologie private. Parla delle “sabbie mobili” come di un luogo reale in cui sua madre è scomparsa, si immagina palombaro del fango, costruisce mondi che gli permettano di sopportare la mancanza di risposte.
Nel rapporto, la madre diventa un “oggetto tragico”: indispensabile, ma fonte di disperazione e paura. Il figlio, invece, è il piccolo psicoanalista della madre, che cerca disperatamente di decifrare, dare parola e tenere saldi quei “comandamenti” (come suggerisce il titolo) che rimangono illusioni normali in un mondo disgregato.
Sabbie mobili non è solo un romanzo sull’abbandono, è un romanzo sulla lingua come forma di resistenza, sulla narrazione come unica forma di sopravvivenza possibile. Il protagonista non viene mai davvero salvato da nessuno – né dalla scuola, né dai servizi sociali, né dagli adulti che fingono di capirlo – ma si salva da solo raccontandosi. Con le sue parole, con i suoi pensieri strani, con il suo sguardo sbilenco ma limpido.
Il bambino non è un piccolo eroe, ma un sopravvissuto silenzioso. Non è resiliente, è semplicemente lì, ogni giorno, a cercare un modo per tenere insieme i pezzi. Le sue emozioni sono disordinate, trattenute, spesso negate. Non sa piangere, nemmeno quando tutti si aspettano da lui un crollo emotivo. Eppure sente, eccome se sente. È un bambino che si aggrappa al pensiero come un naufrago alla propria zattera.
La società, in tutto questo, appare inadeguata e ipocrita. Gli adulti attorno a lui, maestre, presidi, vicini, educatori, osservano, giudicano, indagano, ma nessuno lo accoglie davvero.
C’è una distanza incolmabile tra la loro razionalità e il linguaggio emotivo e simbolico del bambino. La sua realtà viene letta come bizzarra, immaginaria, “peculiare”. Ma non è lui il problema. È il mondo attorno a non essere capace di accogliere le sue parole, i suoi codici, le sue paure.
Veronica Raimo costruisce così un romanzo che è un lungo grido muto, un requiem per tutte le infanzie trascurate, per tutte le madri che non hanno saputo restare, per tutte le volte in cui chiediamo a un bambino cosa vuole fare da grande senza mai chiederci come sta ora.
La povertà non è solo economica: è affettiva, simbolica, linguistica. È la mancanza di nomi, di verità, di spiegazioni. È il vuoto lasciato da una madre che se ne va lasciando la colazione sul tavolo e una gatta chiamata Collo. È un sistema che preferisce fare domande banali invece di ascoltare le risposte profonde.
Eppure, nonostante tutto, il bambino scrive il suo tema in classe: “Voglio diventare un palombaro delle sabbie mobili.”
E lo fa con uno slancio lirico, con un’intuizione formidabile.
Perché ha capito che non può restare in superficie.
Lui dovrà scendere a fondo, nella melma dell’assenza, dell’incomprensione, del dolore.
E lì, cercare di respirare.
Veronica Raimo scrive una storia che ti lascia addosso una malinconia profonda e una strana tenerezza. È un libro che disturba, che fa male, ma che ci ricorda che a volte sopravvivere significa solo trovare le parole per raccontare l’abisso.
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