Buongiorno cari lettori! Ho scelto di leggere alcuni romanzi candidati al Premio Strega 2020 e Almarina di Valeria Parrella è uno di quelli che mi hanno subito incuriosito essendo ambientato a Nisida, il carcere minorile di Napoli. L'autrice è napoletana, quindi non potevo non leggerlo.
di Valeria Parrella Editore: Einaudi Pagine: 136 GENERE: Romanzo Prezzo: 9,99 € - 17,00 € Formato: eBook - Cartaceo Data d'uscita: 2019 Link d'acquisto: ❤︎ VOTO: 🌟🌟🌟🌟🌟
Trama:
Può una prigione rendere libero chi vi entra? Elisabetta insegna matematica nel carcere minorile di Nisida. Ogni mattina la sbarra si alza, la borsa finisce in un armadietto chiuso a chiave insieme a tutti i pensieri e inizia un tempo sospeso, un'isola nell'isola dove le colpe possono finalmente sciogliersi e sparire. Almarina è un'allieva nuova, ce la mette tutta ma i conti non le tornano: in quell'aula, se alzi gli occhi vedi l'orizzonte ma dalla porta non ti lasciano uscire. La libertà di due solitudini raccontata da una voce calda, intima, politica, capace di schiudere la testa e il cuore.
Esiste un'isola nel Mediterraneo dove i ragazzi non scendono mai a mare. Ormeggiata come un vascello, Nisida è un carcere sull'acqua, ed è lí che Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Ha cinquant'anni, vive sola, e ogni giorno una guardia le apre il cancello chiudendo Napoli alle spalle: in quella piccola aula senza sbarre lei prova a imbastire il futuro. Ma in classe un giorno arriva Almarina, allora la luce cambia e illumina un nuovo orizzonte. Il labirinto inestricabile della burocrazia, i lutti inaspettati, le notti insonni, rivelano l'altra loro possibilità: essere un punto di partenza. Nella speranza che un giorno, quando questi ragazzi avranno scontato la loro pena, ci siano nuove pagine da riempire, bianche «come il bucato steso alle terrazze». Questo romanzo limpido e intenso forse è una piccola storia d'amore, forse una grande lezione sulla possibilità di non fermarsi. Di espiare, dimenticare, ricominciare. «Vederli andare via è la cosa piú difficile, perché: dove andranno. Sono ancora cosí piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui».
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RECENSIONE
Almarina è un romanzo che non mi aspettavo, o forse sì. Immaginavo una storia delicata ma forte, disperata e condiscendente, un insieme di emozioni sussurrate e altre gridate attraverso l’intimo più profondo della protagonista.
Elisabetta è un’insegnante, una donna che ha perso il marito e che lavora nel carcere di Nisida.
Nisida è il carcere minorile di Napoli, è una piccola isola che si affaccia sul mare e da cui si respira il ricordo della perduta libertà.
Un luogo sovraccarico di memorie, di atti e di giustizie, un luogo di mezzo, un teatro di passaggio per tutti quei ragazzi che hanno sbagliato e che devono scontare la loro pena.
Una pena che si misura in base alla loro età, perché sono tutti minorenni, tutti ragazzini e ragazzine che scontata la loro colpa, torneranno nella realtà di prima, cambiati o meno.
Del cambiamento non si deve occupare Elisabetta, perché il suo compito è solo quello di insegnare la matematica. E lei non si deve nemmeno preoccupare del loro futuro, perché, nonostante tutto, ognuno di loro ha una casa a cui tornare, o qualcosa da desiderare pur di non restare a Nisida.
Attraverso gli occhi della protagonista entriamo nel carcere, conosciamo i ragazzi che lo popolano; il bel comandante, che Elisabetta segretamente desidera; lo scorbutico e freddo direttore, e l’amica Aurora. Tutti personaggi profondamente diversi da lei, un coro di voci che riusciamo a sentire attraverso la voce di Elisabetta che ce li presenta e ce li fa conoscere.
La sua vita, prima e dopo Nisida, è un insieme di colori grigi, tenui, opachi, come la sua anima, perduta in una quotidianità quasi priva di significato dopo la morte di Antonio.
Elisabetta vive ma non ci convince.
Chi legge resta un po’ isolato perché sente la sua solitudine, e la sente forte, così forte che comprende il perché questa donna sembri agire quasi in modo meccanico, avendo perso lentamente ogni slancio vitale.
Ma dentro Nisida è tutto diverso. Il castello la guarda da lontano e si apre quando il cancello si alza.
Regina, reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello?
Ogni giorno è sempre la stessa storia, documenti, cartelli, presentazioni per dimostrare che lei è un’insegnante e che lì dentro deve entrarci di diritto.
Guardare, osservare, comprendere e spiegare a tutti quei giovani i numeri e la geometria. Un modo per contribuire a renderli maturi, forse migliori, sicuramente cresciuti in qualche modo rispetto a quando sono entrati mesi prima.
C’è un po’ di tutto a Nisida. Si gioca, si lavora, si studia. Un piccolo mondo per permettere a queste anime così piccole, e a volte così indifese, di costruirsi un futuro, o meglio di non perderlo del tutto una volta usciti.
Non si sa che fine faranno. Se quando usciranno torneranno alle vite di prima. Elisabetta se lo chiede e non sa cosa sperare, perché il suo non è cinismo e nemmeno distacco, come lo è per tutti gli altri.
Lei non riesce a non soffrire quando un giovane va via e lei non può più insegnargli nulla. In qualche modo, in un tempo e in una lingua diversa, tutte quelle anime così giovani diventano sue e vorrebbe che fosse così per sempre.
Nello stesso modo in cui desiderava avere un figlio con Antonio. Un figlio che non è mai arrivato, nemmeno con l’adozione.
E allora Elisabetta si sente in gabbia. Una gabbia di cui noi non avevamo percepito la misura e nemmeno la grandezza. Una gabbia che diventa sempre più stretta ed evidente man mano che ci addentriamo nella profondità della storia.
Della sua storia. Di Nisida. Di Elisabetta. Di Almarina.
Quella quotidianità iniziale, quei gesti così banali, comuni, ripetuti, di cui abbiamo letto nelle prime pagine del libro, e che ci davano l’illusione che tutto sommato la protagonista avesse una vita felice, soddisfacente, appagata, normale, all’improvviso mostrano il loro vero volto, la cruda verità.
Elisabetta non indossa una maschera. Elisabetta è quella maschera, perché ha smesso di guardarsi allo specchio, stanca di vedere i suoi fallimenti, i suoi vuoti, le sue voragini.
Tutto quello che è e che fa, è solo il risultato di un meccanismo che le ha ispessito l’anima, privandola della sua luce.
Elisabetta non brilla. Non brilla più.
Fino a quando non vede Almarina.
Procedemmo con la cura
che meritano le cose eterne.
Una giovanissima romena rinchiusa nel carcere di Nisida. Una ragazzina che ha subito sfavori e dolori dalla vita, maltrattata e abusata, in fuga dal proprio paese per venire in Italia. In cerca di un fratello da cui l’hanno divisa, in procinto di diventare una donna-bambina, con i lividi fuori e le ferite dentro.
Tra lei ed Elisabetta subito un’intesa, una magia, una riconciliazione con la vita per entrambe.
Almarina studia, Alamarina sorride, Almarina è libera nonostante sia prigioniera.
La sua anima affascina quella di Eleonora perché è pura nonostante tutto, nonostante le bruttezze e le brutalità della vita. E soprattutto, non è spenta, è in guerra, è forte, è potente, è guerriera.
Almarina è la figlia che Elisabetta non ha mai avuto.
È l’affetto, è quella solitudine che non è più abbandono, ma solidarietà, comprensione, condivisione.
Il loro rapporto non è fatto solo di insegnamenti perché Elisabetta non riesce a non andare oltre, a non vedere dietro la scorza della vita, un cuore fragile, il cuore di una donna-bambina.
Ed è così che, complici le feste di Natale passate insieme, in cui la protagonista decide di portare a casa sua Almarina, tra le due nasce un affetto destinato a sopravvivere a qualsiasi legge e ostacolo.
L’affetto di due solitudini che si riconoscono e che hanno bisogno l’una dell’altra per spiccare il volo.
Almarina sa che quello che non è presente alla vista non esiste più.
Nisida, per Elisabetta, è un viaggio durato anni che alla fine si conclude nel modo più insperato.
Almarina è la libertà da quella gabbia tanto agognata. È la vita che ti senti nascere dentro, quel desiderio di protezione che provi dopo tanto tempo, la voglia di condividere, di esistere, di crescere insieme a qualcuno che senti finalmente come tuo.
Lo stile di Valeria Parrella è coinvolgente, lei usa le frasi e le incastra, e basta una parola per farti intendere il suo mondo. Un mondo logico per l’apparenza, ma quasi magico, irrazionale nella sua intimità. Un’intensità che ha i colori sfocati del sogno. Mi è sembrato quasi che il mio spirito aleggiasse tra le mura di Nisida perché le parole non sono mai urgenti, brute o violente. Non è la parola nella sua forma estetica a dare un senso all’idea, ma è il modo in cui l’autrice racconta, che pur non evidenziando alcun tipo di aggressività o scenario tragico, riesce in egual misura a far comprendere la gravità e la drammaticità di chi vive in un carcere minorile.
La penna dell’autrice è delicata ma intensa. Piena di umanità e capace di coinvolgerti così tanto da essere realmente felice, provare sulla tua pelle di lettore estraneo, la felicità di Eleonora e di Almarina, come se fosse la tua.
Io lo devo dire: sono felice per loro.
E spero che da qualche parte, una Elisabetta e un’Almarina possano stare insieme per sempre unite da quell’amore – unico – che merita cura perché amore eterno.
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