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mercoledì 5 giugno 2024

Recensione: LE ULTIME CONFESSIONI DI SYLVIA P. di Lee Kravetz

Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la Fazi editore, oggi vi parlo di un romanzo stupendo, Le ultime confessioni di Sylvia P. di Lee Kravetz.

le ultime confessioni di sylvia p.

di Lee Kravetz
Editore: Fazi 
Pagine: 289
GENERE: Romanzo Mistery
Prezzo: 12,99€ - 18,50
Formato: eBook - Cartaceo
Data d'uscita: 2024
LINK D'ACQUISTO: ❤︎
VOTO: 🌟🌟🌟🌟🌟 

Trama:
Nel 2019, a più di cinquant’anni dal suicidio di Sylvia Plath, Estee, la curatrice di una piccola casa d’aste del Massachusetts, si trova a esaminare tre vecchi quaderni fitti di scrittura. Non ci mette molto a intuire che potrebbe trattarsi del manoscritto originale del romanzo La campana di vetro: una scoperta sorprendente, che la porterà a capire di essere legata alla grande scrittrice in un modo che mai avrebbe potuto immaginare. Sul finire degli anni Cinquanta la maliziosa poetessa Boston Rhodes (dietro a cui scorgiamo la figura di Anne Sexton) racconta in prima persona la rivalità con la talentuosa Sylvia, verso la quale nutre una rancorosa invidia nonostante Plath, dal canto suo, si mostri sempre gentile e incredibilmente fragile. La relazione tra le due, fatta di infiniti chiaroscuri, rischierà di gettare Sylvia in una fatale spirale di follia e, alla fine, forgerà la sua eredità. Pochi anni prima, nel 1953, la dottoressa Ruth Barnhouse, tra le prime psichiatre degli Stati Uniti, cura la giovane Sylvia durante i giorni bui trascorsi in un istituto psichiatrico in seguito a un tentativo di suicidio; quello che si instaurerà tra le due è ben più di un rapporto tra medico e paziente e aiuterà la brillante poetessa a tornare sulla strada della letteratura. Le ultime confessioni di Sylvia P. è un accattivante mistery letterario in cui realtà e finzione si fondono per ridare vita a una scrittrice venerata; dai retroscena sulla nascita della Campana di vetro alla rivalità con Anne Sexton, dalla depressione alla vita matrimoniale con Ted Hughes, l’esistenza di Sylvia Plath viene riscritta attraverso tre narrazioni che, intrecciate con sapienza, compongono un romanzo audace e avvincente.

RECENSIONE

Le ultime confessioni di Sylvia P. di Lee Kravetz è un romanzo che mescola fatti reali e immaginari. Chi può dirlo? Certo è che posso affermare con certezza che questo è uno dei libri più belli che ho letto in questo 2024 e difficilmente verrà eguagliato da altro. 

Conoscete la poetessa americana Sylvia Plath? Una delle più grandi voci della poesia contemporanea mondiale. In questo libro, la sua vita è raccontata attraverso tre voci. Tre donne: un’amica/rivale, una curatrice d’aste e la sua psichiatra che esprimono aspetti sconcertanti sulla sua esistenza e ci propongono una visione particolare di ciò che era la donna e dei suoi demoni. 

Il libro si suddivide in otto stanze. Perché "stanze"? Secondo Boston Rhodes, una delle voci che raccontano, la sua vita è suddivisa in stanze, stanze della memoria, dove fatti belli o brutti si raccolgono. Nella lingua italiana, stanza significa "camera" ma anche "strofa", quindi se pensiamo alla vita come a tante stanze, significa che la vita è anche una grande e immensa poesia. Un concetto affascinante che colloca questa storia in un contesto che ammalia il lettore e lo affascina per tutta una serie di chiaroscuri che dipingono lentamente e con il tocco un po’ tremante, la figura della poetessa ma anche delle donne che le hanno vissuto accanto. 

Este, la curatrice d’aste, nel 2019, si trova davanti tre taccuini che sembrano essere la versione primitiva del libro più importante della Plath: La campana di vetro. Un testo dove pur cambiando nomi e alcune situazioni, la poetessa racconta la sua esperienza nel manicomio del Massachusetts. Este segue con interesse il percorso che porta l’autenticazione di questi quaderni fino all’asta finale. 

Ruth, nel 1953, è la psicologa che segue la giovane poetessa Plath, a suo dire – “un misto di torva disistima e ostinato pessimismo”, rinchiusa dopo un tentativo di suicidio, a venir fuori dal baratro. Conosciamo una ragazza solo all’apparenza fragile, ma molto intelligente, ribelle, che nasconde sotto la cenere di un’apparente e forzata sottomissione familiare, artistica e sociale, una grande voglia di emergere e un’acutezza rara. Vittima dei comportamenti ossessivo compulsivi della madre, tende a rinchiudersi in se stessa perché incapace di sentirsi davvero libera. Ruth, dopo una palpabile reticenza iniziale da parte della ragazza, capisce che il suo problema è che non le è mai stato insegnato a essere libera. Sylvia Plath da ragazzina non conosce cosa significhi il libero arbitrio.“ Scriviamo poesie da un manicomio, al riparo dalla ragione.” 

La terza voce narrante, nel 1958, quindi qualche anno dopo, è Boston Rhodes, pseudonimo della poetessa Angela White, che l’autore probabilmente ha identificato come Anne Sexton, altra icona della poesia di quegli anni. – “In tutti noi c’è un pizzico di follia. Non crede, professor Lowell? Sarebbe esagerato dire che è stata proprio la follia, a unire la mia orbita a quella di Sylvia?” 

Plath e Rhodes (Sexton) sono due donne e poetesse molto simili. S’incontrano per la prima volta al circolo dei poeti del New England, e mentre Boston cerca in tutti i modi di ottenere l’attenzione e i meriti da parte del professore che dirige il circolo, tale Robert Lowell, (anch’egli affermato e reale poeta dell’epoca) con un’insistenza che sfiora la psicosi, Sylvia giunge all’improvviso, la sua fama è già conosciuta in giro e immediatamente offusca la figura dell’altra.“E finalmente, capii che il significato delle sue parole era che bisognava scrivere senza costrizioni!” 

Boston non ci sta. Comincia a tramare una vendetta nei confronti di quella donna, di cui non sa nulla, (ma noi sappiamo degli anni di manicomio di Sylvia e le enormi difficoltà per venirne fuori, e ce ne dispiace tanto), e impotenti assistiamo al modo a volte crudele, sfrontato, senza alcuna remora, con cui Boston ferisce lentamente Sylvia mentre non si accorge che è una donna che cammina in punta di piedi su un bivio. – “Nessuno dirà mai che nell’arte conti la meritocrazia. L’arte è sempre una questione d’affari. In qualsiasi campo, per essere il migliore, bisogna persuadere gli altri, incoraggiarli e costringerli a stare dalla nostra parte. Come diceva sempre mio padre, per avere successo nel lavoro e nella vita in genere, è necessario stabilire relazioni, stringere alleanze e assicurarsi la fedeltà del prossimo.” 

Cova un odio quasi inspiegabile; si convince che l’altra vuole portarle via tutto e comincia una corsa a chi pubblica per prima, a chi scrive più poesie, arrivando a corrompere un editore per ottenere qualche merito in più. E mentre pare che l’una copi l’altra in diverse occasioni, alla fine il riconoscimento che è Sylvia la poetessa più grande tra le due, porta Boston a prendere una decisone che cambierà le sorti di tutte e due.“Ho un cuore troppo grande. Che lascia entrare troppe cose. Io sento tutto, è più forte di me. E non riesco a sopportarlo. Così metto i miei sentimenti nelle poesie. Mi piace pensare che ogni poesia sia come una stanzetta, in cui rimango solo per poco tempo.” 

Sa che il marito di Sylvia la tradisce. Ne ha le prove e le userà per spezzare completamente la sua vita. “Volevo che Sylvia soffrisse. Non le avevo risparmiato quel dolore. A prescindere da quello che pensava Ted Hughes, ero stata io a ucciderla. No, mi corresse la voce velenosa, non l’hai uccisa. L’hai sconfitta.” 

Nel frattempo Este non è chi crediamo che sia. Un bellissimo colpo di scena vi aspetta oltre la metà del libro. Un colpo di genio che mi ha fatto apprezzare tanto questa storia. Ruth, d’altro canto, farà il possibile, tra mille difficoltà, e con i suoi metodi assolutamente innovativi per l’epoca, per salvare Sylvia e ci riuscirà, riportandola, come vediamo poi dalle parole di Boston, sulla strada della letteratura, ma non basterà. 

Sappiamo tutti la fine che ha fatto Sylvia Plath. 
Una fine ingiusta. 
E leggere questo libro, di cui è impossibile definire cosa sia vero e cosa sia stato inventato, è un colpo al cuore, un taglio al centro del petto che fa male alla carne quanto alle ossa. 

La scrittura è fluida, il racconto procede senza intoppi, e nonostante si parli di arte, di poesia, di famiglia, di tradimento, di sentimenti poco morali e di comportamenti quasi criminali, non c’è un attimo di noia. I temi sono seri, meritano attenzione, e ti fanno riflettere su ciò che gira intorno agli artisti. 

La rivalità tra queste due grandi poetesse ha segnato un’epoca. Entrambe rappresentanti della poesia confessionale, sviluppatasi tra gli anni cinquanta e sessanta negli Stati Uniti. Le poesie sono sfoghi personali, parole che sembrano essere state strappate dalle pagine di diari così intimi da provare quasi imbarazzo a leggerle; un animo più sensibile, empatico, può addirittura sentirsi un criminale nel mettere occhi su qualcosa che è troppo viscerale per essere condiviso così apertamente. 

Boston ha distrutto quella che poteva essere una grande amicizia, ma non ha cancellato l’enorme somiglianza che c’è tra loro. Ci si chiede come può una vita così meritevole eppure così fragile e dismessa essere distrutta dalla sua stessa sensibilità, poesia insita nel cuore che è incapace di reagire con la forza, e si lascia andare alle parole come unica fonte di libertà. 

Si prova rabbia quando si legge dei sentimenti negativi che prova Boston per una donna che non gli ha fatto nulla. Anzi, che sembrava volerle essere amica, e che non ha mai tentato di distruggerla. Anche se, in momenti più intimi, come occasioni con familiari o pubbliche, La Plath ha ostentato la sua vita perfetta, il suo matrimonio con il più grande poeta dell’epoca, e sembrava quasi che volesse ombreggiare la vita “normale” di Boston Rhodes. 

Qual è la verità? 
Non lo sapremo mai. 
Ciò che sappiamo, a fine lettura, è che La campana di vetro, opera piena di dolore, di strazio, di esperienza vissuta ma anche di inestimabile poesia, è frutto di un percorso irrazionale dovuto a un’anima speciale che ha toccato la terra per poco tempo e poi è volata via. Una donna estremamente fragile, a cui è stata data troppa sensibilità, ma anche troppo poca, come lei stessa ammette, eppure ha tentato di sopravvivere al lutto dell’esistenza, a quel senso perenne di mancanza, scrivendo versi, in cui racchiudere ciò che le sfuggiva. 

La bravura dell’autore sta nel riuscire a rendere le personalità delle due poetesse in modo chiaro, facendole percepire come esseri umani, alle prese con le loro malattie mentali, con i dolori e dubbi, con le fragilità e le paure. Sì, c’è l’animo artistico, ma prima di tutto c’è il valore della persona, del suo io più profondo ed è così che viene fuori il grido di sopravvivenza che entrambe racchiudono dentro i loro cuori, troppo deboli per sopravvivere alla loro grandezza. Solo la poesia è stata talmente forte, l’unica roccia, su cui entrambe hanno potuto fare affidamento e che non le ha tradite, custodendo fino a oggi ciò che avevano da dire. 

Le ultime confessioni di Sylvia P. è un romanzo pieno di mistero, su cui aleggia la morte indisturbata e costante, un pensiero che vive nella mente di tutte le donne che raccontano e sopratutto nella mente della protagonista, un’ombra che diventa sempre più carnale, ma nonostante tutto io ho continuato a percepire come un fantasma. 
Per me, Sylvia Plath, era e resterà sempre un essere velato, qualcosa di intangibile che però esiste. Che ci ha lasciato molto più di quanto meritiamo, molto più di quello che la maggior parte di noi può capire. 

E anche se questa storia ci fa arrabbiare, perché l’odio e la vendetta non sono mai fonte di felicità, serve a capire che oltre alle sue poesie che sono pur sempre oggetti, Sylvia ci ha lasciato qualcosa di più grande: se stessa e la sua resistenza. 
Perché, dopotutto: “Gli oggetti si limitano a esistere, ciechi e impotenti, e un giorno crolleranno come il Colosso di Rodi. L’essere umano, invece, resiste.” 
E Sylvia è ancora qui.

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