Buona domenica! La recensione di oggi riguarda un libro breve,
circa 50 pagine, scritto da Stefano Falotico e intitolato Fantasmi Principeschi. La mia
passione per i fantasmi e per le atmosfere lunari e notturne mi ha spinto a
leggere
questa storia molto particolare, scritta come fosse poesia in prosa e caratterizzata da una dimensione tanto spettrale quanto inquietante.
Titolo: Fantasmi Principeschi
Autore: Stefano Falotico
Editore: Selfpublishing
Pagine: 50
Genere: Narrativa
Prezzo: € 8,00
Uscita: 2015
TRAMA
I fantasmi che, acquietati, ci lustrano d'intensa lucentezza
immaginifica in lune nere opalescenti o, inquietanti, ci appaiono mefistofelici
nello scotere il nostro corpo di brividi acuti. Acustici, lagrimiamo le nostre
recondite, intimissime paure e, con i fantasmi, passeggiandovi assieme
negl'incubi più fatali e lugubri, c'incamminiamo per sentieri meandrici
dell'inconscio buio e più profondo, ne mordicchiamo assieme i lor cuori e, di
corpo spaventato, urliamo ululanti dinanzi ai lor racconti agghiaccianti.
Ancorati alla speranza ch'essi vivano e, davvero verissimi, esistano, davanti a
loro esitiamo ma non resistiamo al lor epocale fascino, c'incateniamo incantati
dalle lor storie di case infestate, dirimpetto ai lor maledetti spettri
mortali, mordaci, gridiamo! E, dai sepolcri più celati, i fantasmi più nascosti ci raggelano nell'emanarci dentro le anime nostre scoperte un sapor nitido d'evanescenza, d'ectoplasmatica vividezza.
Stefano
Falotico in Fantasmi Principeschi ci
induce con una premessa a dir poco terrificante all’interno dei meandri della
sua follia narrativa, arpionandoci con le sue
stravaganti conclusioni, riflesso fulgido e mai incrinato di una visione
memore di antichi presagi cupi e sinistri che volteggiano indisturbati nella
sua mente. E’ lì che, meditando e
favoleggiando di perpetui risvegli e di immortalità, che i fantasmi ridono
occhieggiando, e vivono per ricordare esclusivamente all’essere umano cos’è la
vera vita.
Dagli angoli
reconditi dei castelli silenti, i loro respiri
s’odono da
ritornati viventi ammalianti e ammantati da un
sobrio, rinomato baglior candido avvolto
cupamente
o suadente nelle trasparenze languidamente
ambigue, loro, i fantasmi che, torvi,
occhieggiano
un’umanità megera, traslucidi e gracchianti come
corvi neri e altisonanti, spiriti notturni delle
guardiane vetustà rinate anche sol d’essenza
intoccabile eppur di penombre appar(isc)enti fra
pareti asmatiche d’un mondo affranto.
Lo stile è un’altalena di metafore e di figure
retoriche baldanzose che continuamente spumeggiano tra le righe, ossimori e
iperboliche concezioni, poesia e canzoni, scatti ed ira che rendono la sua
scrittura un racconto a voce piena, a tratti stridula e senza dubbio
maledettamente romantica.
Funereo come la morte che invoca, lattiginoso come la
luna che adora, la notte la fa da padrona in un turbine conturbante di minacce
velate che giungono dalle essenze fantasma che si rivolgono con astuzia e
perizia rendendo un po’ di ironia e di dannazione.
Le parole mescolate a dovere diventano unguento di
terrori senza nome come se ignoti e innocenti fossero in grado di sanare le
ferite della vita mortale.
C’è ipnotismo nello scorrere delle frasi, pungolate a
dovere dalla rima e dal fluttuo fluido e continuo delle immagini evocate.
Il vocabolario dell’autore è vasto e
particolareggiato, tutto è giocato tra l’evanescenza e l’apparenza, sulla paura
e l’orrore e sempre l’immancabile riflessione della coscienza e dell’anima.
La prosa poetizzante è scandita da racconti rinchiusi
in gabbie di capitoli che presentano personaggi noti alle prese con le loro
caratteristiche principali, come Dario Argento che diventa l’incarnazione del
concetto di paura tanto abissale quanto primordiale.
Perché io sono immortale anche se non ancor
(non) morto, sono il regista di Profondo Rosso,
io
sono Dario Argento. Della paura il maestro per
eccellenza, la suspense (s)carnificata dei vostri
terrori
più profondi.
Spunta il Joker perfettamente delineato dalla
descrizione impressionante e filiforme.
Joker dal sorriso horror e sguaiato a sbranarvi,
ché
vi pentiate in tal mo(n)do sconcio e orrido
d’averlo
così nel cuor suo intimo, quand’era ancora
infante e
innocente, lacerato e sporcato, porci
dell’assurda,
orrenda cattiveria “onnipotente” da maneschi,
impuniti prepotenti. Vi sostituiste a Dio e lo
ardeste
(in)colpevoli.
Le parole si annidano in quadrati immaginari fatti di
lettere e parentesi, perché ogni concetto rimanda a qualcos’altro.
Ma chi sono questi fantasmi?
Senza speranza, fantasmi cittadini che spu(n)tan
da tombini floridi di bagliori glaciali,
impressioni(stici) del lor danzar nel vuoto
pieno, in
apnea, appena appena a galla, “galerizzati”,
sciocchi
o sol (in)visibilmente sc(i)occanti, signori
mansueti
con l’aplomb maestrale della nobiltà “farlocca”,
scombiccherati, pastrocchi ch’appaiono a f(r)asi
mozzate, abitanti in macabri castelli sgretolati,
dai
ponti levatoi che “albeggian” (s)tirati,
striatissimi nel
malinconico gracchio fragile, gracilissimo di
sere
discendenti, infernalmente caldeggianti.
Poi Clara la bambina fantasma che crea un’atmosfera
inquietante e spaventosa perché il linguaggio è capace di rendere il clima
narrativo torbido, sinistro, spettrale, maniacale e perduto nei recessi indiscriminati
di questi esseri senz’anima.
Fantasmi Principeschi è una prova riuscita, un esercizio
di stile che mette in evidenza le potenzialità puramente formali dell’autore
che si destreggia bene con le parole, avvantaggiato probabilmente anche dalla
tematica a lui molto cara della notte, del buio, della luna. Quell’evanescenza
fisica e mentale che tanto lo alletta, quelle ombre che non incutono timore a
colui che le racconta ma bensì che lo affascinano come una bellissima donna
dalla pelle diafana e dagli occhi dell’abisso. Il senso è un desiderio di
affermazione di questa dimensione fantastica permeata inevitabilmente di
nostalgia ma non per questo priva di un piacevole senso di scoperta.
L’autore come i suoi intrepidi fantasmi è: lastrato di principesco ardore, fuggo,
ruggisco, fuggiasco o vigliacco, fiacco o ancora non stanco.
E dunque Fantasmi Principeschi, buona interpretazione
di poesia in prosa, evoca la dimensione passionale dell’autore per queste
essenze prive di sostanza ma non per questo prive di piacevole evanescenza,
sentore e ribellione. I loro atteggiamenti, ripresi più volte, sono selvaggi,
indomiti, oltraggiosi, menefreghisti ma anche perdutamente innamorati della
loro condizione e di quell’oscurità che li rende i signori della notte.
Pieno di visioni e di sogni, accarezzato da strani e
stranianti incubi, i fantasmi non hanno bisogno di presentazioni, e qui, in
questo libro, libero e libertino, il loro splendore notturno scintilla di
prepotenza e martirio.
“Soffian” voraci da lapidi esangui, brillan
entusiasti nel buio delle estati, estatici,
taciturni,
diurni e serali, imprendibili, tutti assieme o
solitari,
non acchiappabili e “sottili”, poi densi, cinerei
e
“cervi”, tra liane e boschi di fate, son i
fantasmi!
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