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martedì 24 febbraio 2015

Vicarìa. Un'educazione napoletana di Vladimiro Bottone Recensione

Buon pomeriggio cari lettori, dopo qualche giorno di assenza ritorno con la recensione di un libro a cui tengo molto, perché parla della mia città. Scritto da Vladimiro Bottone, giornalista e scrittore, il testo s’intitola Vicarìa. Un’educazione napoletana, ed è un romanzo che non vi lascerà indifferenti, in nessun caso.



Titolo: Vicarìa. Un’educazione napoletana
Autore: Valdimiro Bottone
Editore: Rizzoli
Pubblicazione: Gennaio 2015
Genere: Romanzo
Pagine: 450
Prezzo: 15,00 – 9,99

Trama

Napoli, 1841. Il giovane commissario Fiorilli ha appena preso servizio a Vicarìa, uno dei quartieri centrali più malfamati della città. Non ha ancora fatto l'abitudine al male che ne percorre le strade, quando si trova a dover indagare sulla scomparsa di un bambino, un orfano rinchiuso nel cosiddetto Albergo dei poveri. Il piccolo Antimo aveva cercato di scappare da quell'edificio opprimente - che i napoletani chiamano anche Reclusorio o Serraglio - autentica città nella città che ospita vecchi, donne perdute e soprattutto una spaventosa massa di bambini esposti a ogni genere di pericoli. È così che la tragica storia di Antimo si trasforma per Fiorilli in un'ossessione, una ricerca della verità che gli fa incontrare Emma, insegnante di musica al Reclusorio, bella e idealista, ma che lo getta in pasto a medici avidi di carne giovane, funzionari corrotti, camorristi e sbirri cresciuti nello stesso fango. Per questa umanità varia e disperata tutto ruota intorno al tribunale della Vicarìa, la prigione della città e anche il luogo dove si svolge l'evento che i napoletani aspettano ogni settimana come unica speranza di salvezza: l'estrazione del Regio Lotto. E qui Fiorilli scoprirà che la giustizia degli uomini, troppo spesso, è cieca. Proprio come la fortuna.


Biografia 

Vladimiro Bottone, nato a Napoli nel 1957, vive e lavora a Torino. Ha pubblicato diversi romanzi, tra cui L'ospite della vita (selezionato al Premio Strega 2000) e Gli Immortali (Neri Pozza, 2008). Collabora alle pagine culturali del Corriere del Mezzogiorno e dell’Indice dei libri del mese.



Vita per vita. Sangue per sangue. Chesta è 'a Legge 'e miezo 'a via. Chesta è 'a Legge d' 'o Munno, guagliò.


Napoli: terra di tutti e terra di nessuno. 

“Il Real Albergo dei poveri. Una cittadella autosufficiente, una città nella città. Un ricovero destinato ai vecchi inabili, alle donne perdute e all’infanzia che si perderà. Per i napoletani è il Serraglio. Come a dire una specie di carcere. Un’opera mastodontica, nata con l’ambizione megalomane di risanare le sette piaghe cittadine. Quasi da subito, però, si è aggiunta ad esse divenendone l’ottava. Ottava e, come tutte le cose nate storte, ugualmente indistruttibile.” 

Benvenuti nel Serraglio o Reclusorio, quello che a buon viso e cattivo gioco non è altro che un carcere autorizzato. Descrizioni allucinanti di questi spazi immensi e corrotti, piegati e malmenati da coloro che li abitano e li amano riducendone gli sforzi vitali all’osso. Su due piedi, Vladimiro Bottone ci mette davanti una Napoli che non ha scusanti e che non ha alternative. Come ieri anche oggi, Napoli o la ami o la odi. 
Sporcizia, sudore, squallore, disumanizzazione in un luogo nel quale, sembrano raccogliersi per eccesso e mai per difetto, tutte le nefandezze e le cattiverie del mondo. Sul cumulo di macerie che si erge incontrastato ed insolente nel cuore un po’ dismesso della città dai mille colori, appare una figura gracile e malaticcia, con gli occhi infossati dalla fame e lo sguardo stranito di chi non ha più niente da perdere. Antimo, nome in croce di un bambino venuto dal nulla e che nel nulla scompare. E’ sua la fuga, il tentativo maldestro di scappare dal Reclusorio. Si nasconde in una cesta di panni sporchi, nella speranza che i due facchini lo conducano fuori, regalandogli una libertà che avrebbe il sapore del miracolo. Ma la ruota della Fortuna estrae il numero sbagliato e Antimo diventa l’ennesima vittima di un sistema che tutto mette a tacere grazie alla potenza della divisa e della violenza. 
Don Michele Florino è il Comandante, O’Cummannante, colui che inesorabilmente decide che nessuno può fuggire dal Serraglio. Nessuno può salvarsi dalla tragedia a cui è destinata la propria misera vita di orfano. Il futuro di tutti questi bambini è nella mani di un uomo la cui cattiveria ed insensibilità ti fa gelare il sangue. Il modo di agire di quella gente che comanda è bestiale e non lascia nessuna possibilità di sollievo. Se appartieni al Serraglio, è nel Serraglio che devi morire. 

“E non potrebbe essere diversamente: un inerme non conta nulla, in questa città dove la sopravvivenza viene garantita solo dalla tua pericolosità.” 

La dura legge della sopravvivenza non consce limiti né rilascia sconti e l’autore lo sa talmente bene da usare un linguaggio così duro e crudo, reale ed immerso profondamente, fino alla radice delle unghie, nella terra malata di cui si fa carico. La sua penna diventa voce giornalistica, pungente, salata, a volte liquorosamente amara, ma anche poetica ed altisonante quando ad ispirare la sua anima napoletana c’è la meraviglia e la maledizione della bella Napoli, una città che non puoi dimenticare ma che puoi soltanto cantare. 

Sconcertante ed orribile è il personaggio di De Consoli, il medico del Reclusorio, colui che si occupa di camuffare il cadavere di Antimo per farlo seppellire nel cimitero facendolo passare per un vecchio morto naturalmente nel Serraglio. Perché nessuno deve sapere che in quella prigione dimenticata dalla giustizia, si uccidono bambini come fossero le creature più indegne di abitare questa terra. E proprio De Consoli ha un rapporto particolare con quelle anime innocenti, lui ne odora i corpi, sia da vivi che da morti. Ne subisce il fascino malato che ha il sapore della depravazione e della follia. 
Ma in tutta questa melma, in questo fango che trabocca nelle vie, fino ad insozzare persino il cielo dietro il quale un Dio distratto sembra essersi nascosto per paura degli uomini, c’è ancora la speranza di una ferita pulita che non sia stata ancora contagiata da tutto questo dolore e questa violenza. L’ispettore Gioacchino Fiorilli, alto ed impettito, onesto e serio che cerca di capire chi sia quel bambino sotterrato nel cimitero sulla cui bara hanno scritto il nome di un vecchio. 

“Ma chi sei veramente, che non riesci a trovare requie neanche dopo la morte? E che, perciò, squieti pure me?” 

Bottone ci travolge, investendoci di colori e sapori, di odori malsani e bruciati, di stanze sporche, strade distrutte e chiese che hanno dimenticato la purezza degli angeli e l’amore di Dio. 
Nella parola Napoli “ Neapolis-Necropolis”, risuona l'eco di una morte già sepolta, dove la vita lotta ancora più aspramente per sopravvivere, in cui è la Fortuna, rappresentata dal gioco del Lotto ed i suoi numeri fortunati, ad incarnare un appiglio, un miracolo per tutte le persone che ci credono e delle quali però nessuna mai si salva. 
I protagonisti descritti dall’autore non sono semplici personaggi, sono esseri umani. E’ raro provare una sensazione simile davanti ad un libro. Dimenticare che stai leggendo, avvertire, passo dopo passo, l’intensità e la morbosità viva della vita con le sue storture e le sue arrabbiature, avvicinarsi lentamente fino a sfiorarti. Lo stile usato aiuta a creare un mondo parallelo che non ha niente meno di questo. Un mondo fatto di gente vera, la cui veridicità di azioni e sentimenti è talmente forte e pulsante che ti sbatte indietro, chiedendoti di aspettare, di assistere senza fiatare. Bottone ha creato un mondo di anime, buone o cattive, di cui io non ho nemmeno per un attimo dubitato dell’esistenza reale. 
L’autore non se l’è inventate quelle anime, le ha solo lasciate parlare. 

E il Comandante Florino è uno degli esempi più tangibili, più fuorvianti. E’ malato di sifilide, ed è come un animale in gabbia, rinchiuso dietro sbarre immaginarie imposte da un Dio che ha dimenticato di esistere. Rabbioso, feroce, malvagio come l’ira universale che assorda i canti della anime innocenti macchiando il cielo di bestemmie. 

“Florino somiglierebbe ad un dio negativo e malvagio, se non fosse per il sangue umano che gli marcisce nelle vene.” 

E De Consoli, con il suo bagaglio di perversioni e di malattia, lo osserviamo sconvolti mentre si avvicina imperturbabile all’innocente di turno, il piccolo Nello, inabissandolo nella sua ignobile gola fatta di tenebra. 

“Noi siamo venuti a portare la nostra tenebra nella luce insignificante della Natura.” 

Insidiosa la concezione del medico riguardo l’inserimento dell’uomo e delle sue perversioni nella purezza sconcertante e sconcertata della Natura. Se è vero che “corrompere è un’arte”, l’uomo ha corrotto la natura, l’ha oscurata con i propri piaceri e le proprie astuzie, con la sua corruzione e la sua mistificazione. Non abbiamo fatto altro, con la nostra venuta, che sporcarla ed imputridirla. 
Ma cosa si salva di questo mondo che non perdona, perché non perdonano gli uomini che lo abitano? 
La musica e l’armonia mistica che creano i suoni uniti alle parole dei canti. La figura eterea di Emma, la giovane di origini inglesi che insegna musica al Reclusorio e di cui Antimo, quando era ancora vivo, si era perdutamente innamorato. Innamorato della sua arte, della dolcezza del suo canto, della visione onirica che si scatenava dal suo corpo e dalle sue mani, quando come la madre di tutte le madri, accoglieva in quei suoni benedetti, per riscattarle, tutte le ingiustizie del mondo. Lo sguardo di Antimo, rapito da quel sogno a metà fra il divino e l’umano, tra il puro e il dissacrato, è raccolto dalle parole dell’autore che creano spazi poetici e scavano fosse negli occhi della mente di chi guarda.

“Sta di fatto che quel bambino, Antimo, le aveva accarezzato l’orlo della gonna, offrendole l’unica cosa di cui era padrone: le proprie lacrime, deposte ai piedi di lei. Come se Emma fosse una delle bellissime Madonne che addobbavano le loro chiese tutto buio e oro. Come se lei, la Signorina, fosse la Vergine in persona capace di intercedere per lui. Di rimettere a lui i suoi debiti, l’enorme debito di essere venuto al mondo.” 

Ed è sotterrato proprio in mezzo a queste parole che si cela il segreto che unirà Emma ad Antimo, in un destino ugualmente terribile ed ugualmente offeso. 

Strani e stretti legami si creano in una storia puntellata di violenza, rabbia ed onnipotenza. Mai come in questa Napoli figlia di quartieri e sgualdrine, sporcata di vicoli e legittimata da una camorra spavalda ed impunita, è esistita tanta miseria e tanta monnezza. Lordura dell’anima, pesante e facinorosa, bellicosa ed intransigente, opulenta e falsificatrice. Un’onta di sensualità e malvagità senza nessuna possibilità di remissione. Quando l’autore ce la racconta, sembra di camminarci per quelle stradine strette e maleodoranti, di sentirli i vecchi che imprecano, le donne che pregano, i bambini che cercano di fotterti e i camorristi che ti spezzano le gambe dei sogni. 

Per me che in questa città ci sono nata e ci sono rimasta, leggerla tra le righe e dentro le pagine di questa memorabile storia, significa conoscerla e riconoscerla, guardarla ed ammirarla, sorriderle e piangerla, perché Napoli è sconfinata nelle sue bassezze come nella sua osannata bellezza, non può fuggire a sé stessa, nonostante le abbiano promesso il riscatto, la mia amata città lo sta ancora aspettando. 
Ed è proprio qui che io la sto osservando. Nonostante ci sia dentro fino al collo, in mezzo a queste strade ormai così ammodernate eppure piene di cicatrici e di ferite, è proprio qui, nel palmo della tua mano, Vladimiro Bottone, che la sto guardando. Immensa nella sua immortalità ed ingiustizia, puttana e sovrana del suo regno di decantata gloria, sei proprio tu, caro autore, ad averla resa piccola, così tanto da entrare nella tua mano d’artista, per permettere a noi tutti di osservarla così da vicino, così pericolosamente dal basso, tanto da sentirla crescere dentro. E quando qualcosa ti cresce dentro, è tuo, per sempre. Napoli era già mia. Adesso lo è ancora di più. 

Vicarìa. Un ‘educazione napoletana è un romanzo nel quale i sogni diventano incubi, mentre contrastano con la vita reale e ti opprimono il respiro e la vista come un lenzuolo sporco e sudato, quasi fosse un sudario che ti prepara al trapasso. Non esistono divinità ma solo l’onnipotenza dell’uomo, il suo schifo ed il suo sacrificio. Morti e vivi, spiriti e fantasmi, realtà ed oltretomba brulicano le strade spezzate di questa città che non demorde, che ti affranca con le sue promesse e t’insanguina con le sue coltellate fino al punto che l’ombra di un bambino trasognato incupirà tutta l’aria circostante e la sua assenza diventerà la presenza più pesante, ottenebrante ed inquietante. 

Il clou della storia è senz’altro l’estrazione del Lotto, che coinvolge giustizia e fortuna in un’unica mano. Sia il Tribunale che l’estrazione del Lotto hanno sede nella Vicarìa, questo significa che “la Giustizia degli uomini agisce proprio come la Fortuna. Ed è quindi perfettamente interscambiabile con la divinità bendata.” Assistendo per la prima volta a questo spettacolo che non è altro che una vera e propria cerimonia teatrale, Fiorilli si renderà conto di quale sia la vera natura di tutti i personaggi loschi che girano intorno al Reclusorio e che ricoprono altrettante cariche importanti all’interno della Giustizia napoletana. 

Insomma una fiumana di gente incallita nel suo stesso male, di ministri, commissari, comandanti, alte autorità del Tribunale che affogano le loro lingue violacee e avvelenate nella ruota salvatrice della Fortuna. 
Eppure la morte è sempre più sgraziata e signora di questi luoghi nefasti ed abbandonati. La vera giustizia, quella della gente come Fiorilli, non può difendere i deboli, gli oppressi, gli offesi. La sua sciabola che dovrebbe proteggere gli inermi “sembrava una specie di lungo chiodo, a cui lui rimaneva appeso, come un fantoccio inanimato. Senza più l’anima.” 

Questa storia ti corrode dentro, lo stomaco va a farsi benedire come il linguaggio scarno, animalesco, spodestato di qualsiasi eufemismo o profumo di cordialità. Uno schiaffo in peno viso, l’odore nauseabondo del vomito di tutte quelle anime sporche e mendicanti che si trascinano sotto il cielo di una Napoli senza Dei né signori, insabbiata nei suoi comandanti e nelle loro vergognose ingiustizie. Un romanzo che pesa perché ciò che racconta è corposo, sconcertante, povero di carezze e di speranze, intriso nella tormenta e nell’inganno, nella maldicenza e nell’odio, nell’irreparabile voglia di denunciare ciò che non può gridare perché gli è stata tagliata la gola prima ancora di nascere. 

Vladimiro Bottone delinea una città che trabocca di passioni e di omicidi, di parole che sgorgano dal ventre dei suoi popolani, parole in dialetto stretto che forse non tutti capiranno. Un’emozione grande quanto il cuore di questa maltrattata città piena di sentimenti contrastanti, imbugiarditi, imbastarditi e bistrattati da una politica e una giustizia che le hanno avvelenato il sangue. Napoli millenaria nella sua veste scolorita non perde mai un passo, nonostante sia ancora immersa nella sua leggenda. Napoli è una di quelle città che bastano a se stesse, come quelle donne che se le guardi, ti sembra di vederci il mondo intero, la passione e l’amore, tutto ciò che vorresti in un’unica visione. Napoli è questo, ancora più cupa e cruda nelle parole del suo autore, nelle storie dei suoi uomini e delle sue donne, figli di una città immensa nella sua essenza di anima tremendamente bella e dannatamente offesa. 
Offesa da chi ogni santo giorno dimentica la sua irriverente eternità. 


Non darò nessuna valutazione a questo romanzo, perché questo romanzo è Napoli e Napoli è il mio cuore. E il mio cuore non posso valutarlo.

12 commenti:

  1. Sembra davvero affascinante. Me lo segno! ^^

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    1. Mi fa piacere Cecilia, spero tu possa leggerlo al più presto e conoscere la tua opinione!

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  2. Una storia toccante e spesso " purtroppo" molto vera.
    Grazie per la recensione.
    Un abbraccio Maria

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    1. Verissimo Maria, oltre ad esserci una storia toccante, c'è anche tanto mistero che si mescola alla leggenda.
      Grazie a te, un abbraccio.

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  3. E' una bellissima recensione, fa venire voglia di leggere.

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  4. Caspita sembra una storia senza mezzi termini.

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    1. Senza mezzi termini come Napoli, la città protagonista. ;)

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  5. Appena finito! Scritto magistralmente, Vladimiro ci racconta una Napoli poi non tanta lontana da quella attuale! Un romanzo di spessore da leggere con calma per assaporare ogni singola parola.

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    1. Verissimo, sono felice che ti sia piaciuto e che tu sia passata a scrivere il tuo pensiero!
      <3

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