Buongiorno
lettori! Oggi proseguiamo il nostro viaggio nel mondo del suggestivo romanzo di
Vladimiro Bottone, Vicarìa. Un’educazione napoletana, proponendovi l’intervista
che l’autore mi ha gentilmente rilasciato. Oltre che nella recensione, nelle
sue parole dirette è possibile cogliere i veri significati del romanzo.
Non
perdetela! E se non avete ancora letto la recensione, cliccate qui!
Salve
Vladimiro, innanzitutto grazie per aver accettato questa intervista.
1- Prima di tutto le chiedo com’è nato
l’amore per la scrittura e quando ha iniziato a dedicarsi seriamente ad essa.
Il mio amore
per la scrittura è figlio, più o meno degenere, della mia passione per la
lettura. Si tratta, quindi, di una passione di antica data che, invece di
invecchiare, ringiovanisce giorno dopo giorno. Ho iniziato a scribacchiare
qualcosa circa venticinque anni fa. Tentativi improbabili terminati giustamente
nel fuoco. Sbagliando s'impara. Sbagliando molto si impara molto (con l'ovvia
premessa che bisogna saper ricavare qualcosa da ogni proprio errore. E a patto
di riconoscerlo, prima o poi, come tale).
2- Se dovesse raccontare a chi non lo ha
ancora letto la natura intima e profonda del suo romanzo, cosa direbbe?
La
storia, ambientata nella prima metà dell'Ottocento, prende le mosse dal
tentativo del piccolo Antimo di evadere dal Reclusorio. Il bambino, cosciente
di trovarsi in pericolo, è depositario
di un segreto inimmaginabile che potrebbe segnare la rovina di alte cariche
pubbliche e, addirittura, mettere a
repentaglio lo stesso funzionamento dello Stato borbonico. La fuga di Antimo,
però, viene sventata e si conclude tragicamente. Il suo cadavere senza nome
incrocerà il destino di Gioacchino Fiorilli, un ispettore della polizia
borbonica non ancora incallito rispetto al male che corrode la città.
Inevitabilmente il corpo del bambino, “bello della tremenda bellezza degli
offesi”, si trasformerà per Fiorilli in un'ossessione di verità. In
un'inchiesta che prima lo farà venire a contatto con Emma Darshwood, un'
insegnante di musica presso il Reclusorio affascinante e idealista. Poi gli
farà incrociare medici avidi di carne giovane, monaci ispirati che vendono le
proprie visioni ai giocatori del Lotto, funzionari doppiogiochisti, giudici
conniventi con il potere, camorristi e sbirri cresciuti nello stesso fango.
Un'umanità eterogenea che, spesso, attende la propria fortuna dalla Dea bendata
e riceve la propria condanna da una giustizia amministrata in modo altrettanto
casuale. Il tutto in una Napoli ottocentesca, non così diversa dalle atmosfere
della Londra dickensiana, dove ogni cosa ubbidisce a una legge non scritta:
“Buona sorte ogni tanto. Malasorte quasi sempre”.
3- Qualcuno sosteneva che quando un personaggio ti entra in
testa non ti lascia in pace finché non gli hai dato la sua storia. Ho amato
molto i suoi personaggi e mi sono chiesta che tipo di rapporto avesse con essi.
Spesso e
volentieri sono stato il loro scrivano. E' questo che, in fondo, distingue il
personaggio riuscito da quello che rimane una semplice funzione narrativa. I
veri personaggi dettano e lo scrittore-scrivano traspone su carta. Lo
scrittore, come il lettore, deve vedere e sentire, proprio in senso auditivo, i
personaggi. Quelli di essi che rimangono sulla carta sono personaggi
falliti. Nei casi peggiori sono grucce
per una tesi ideologica precostituita.
4- Quale dei suoi personaggi ama di più e
quale odia di più? E se potesse scegliere quale personaggio vorrebbe essere?
Amo particolarmente Angela, la
figlia di Gioacchino Fiorilli, perché modellata su mia figlia Angelica. Quanto
agli altri: difficile che l'autore detesti un personaggio se riuscito. Odio
solo i personaggi quando non vengono fuori bene. In quei casi, però, biasimo
essenzialmente una mia incapacità. Nel caso di Vicarìa non ho molti motivi per
odiarne qualcuno (ride).
5- Quanto c’è di autobiografico nella
storia?
Tutto e niente, come sempre.
Per non eludere la sua domanda rispondo così: il mio modo di vedere Napoli, di
sentirmene attratto, di temerla, di ricordarla.
6- L’ambientazione è incentrata sul
Tribunale della Vicarìa e sull’Albergo dei Poveri, luoghi di giustizia formale
e di abusivismo concreto in tutte le sue forme. Cosa l’attrae realmente di
questi luoghi tanto da renderli protagonisti del suo romanzo?
Il loro fascino tenebroso, il loro essere dei magnifici set
cinematografici per l'ispirazione visiva, la loro capacità di simboleggiare e
sintetizzare l'anima ed il significato di Vicarìa. Il fatto, ad esempio, che
nel tribunale della Vicarìa si amministrasse la giustizia e si svolgessero le
estrazioni del Lotto incarna, in maniera fulminea, buona parte del senso del
romanzo.
7- Cosa rappresenta per lei questo
romanzo?
Qualcuno, mi sembra Nabokov ma non vorrei sbagliare, ha detto che si
scrive un romanzo per liberarsi di un'ossessione. Se non c'è ossessione, la
forza e la verità soggettiva di un'ossessione, non c'è il romanzo (e neppure il
romanziere, direi). Ecco, credo di aver risposto.
8- Il suo romanzo è carico di echi del
passato che s’infrangono pesantemente sulle onde del presente. C’è
drammaticità, violenza, rabbia. Questa storia è un omaggio o un riscatto per la
sua città?
La Napoli della
prima metà dell'Ottocento aspettava dei romanzi che le dessero una
rappresentazione adeguata. In questo senso, ma solo in questo senso, possiamo
considerare Vicarìa un atto di omaggio.
9- Nelle vicende raccontate si mescolano
presenze inquietanti. Fantasmi trasognati e spiriti dei morti che sembrano
guidare le azioni dei vivi. Ma la carne
e il sangue sono altrettanto presenti. Quanto hanno influito le leggende ed il
mito che avvolge Napoli nel creare l’atmosfera del romanzo?
Napoli è una
città-mondo che contiene tutto e l'opposto di tutto. I fantasmi come la carne,
per dire. Ogni città-mondo (Pietroburgo, Parigi, Londra per esemplificare)
finisce per costruire nel tempo la rappresentazione mitica di se stessa. Come
dicevo prima, spero che Vicaria possa contribuire per la sua parte.
10- Antimo ti entra nel cuore, allo
stesso modo Emma con la sua musica. Anche lei crede che saranno la bellezza e
l’arte a salvare il mondo?
Arte, bellezza, passione, tenerezza. Il resto, francamente, è
liquame.
11- E’ soddisfatto del suo romanzo e di
ciò che ha donato alla sua città?
Ritengo di
aver fatto tutto ciò che mi era possibile. Non si può chiedere di più ad un
essere umano, categoria nella quale, tutto sommato, includerei anche i
romanzieri (sia pure con qualche cauta riserva).