Buonasera lettori! La recensione che vi propongo stasera è un romanzo che mi ha toccato molto da vicino, avendo vissuto in prima persona una situazione simile. Gabriella Mazzon in Io sono Nina, racconta la vita della madre e la storia della sua demenza senile, attraverso una narrazione diretta, molto reale e cruda ma anche piena di sentimenti e di emozioni capaci di coinvolgere non solo chi, come me, ha vissuto una malattia simile, ma anche chi non lo ha fatto e ha occhi per guardare e cuore per sentire le distorsioni della vita, anche quando essa perde di senso.
Titolo: Io sono Nina
Autore: Gabriella Mazzon
Editore: Ilmiolibro
Pagine: 156
Genere: Romanzo
Prezzo: 11,00 Ebook 3,99
Uscita: 2016
Uscita: 2016
TRAMA
“Mi porterebbe a casa, adesso?” chiede mia madre. Mi dà del lei, non ha idea di chi io sia. E' opinione comune che la demenza sottragga alle persone la memoria, ma fa ben più di questo. La demenza cancella intere esistenze, sprofonda chi ne è colpito in un abisso di solitudine, deruba della possibilità di trovare conforto in chi ti è più caro, trasformandolo in un estraneo. Quella di Nina è una storia in presa diretta, dove una figlia si confronta con il suo stesso ruolo di ‘figlia’ ormai privo di significato, con la disattenzione del passato, l’approssimazione con cui è trattata la vecchiaia, le difficoltà nelle relazioni con gli operatori sanitari. Ne nasce una riflessione sul significato da dare alla vita se questa è così incline a farsi spazzare via. “[...]per quanto importante possa sembrarci, l’amore del tuo uomo, l’amore per i figli, ciò che hai costruito, il dolore che hai dovuto attraversare, nulla, di tutto ciò, regge all’epurazione maniacale della demenza.”
Io sono Nina racconta di una storia che mi ha colpito sin dalle prime pagine, una storia che ho vissuto in prima persona e che mi ha lasciato segni addosso che sono ancora oggi inconfondibili. La demenza senile, senza girarci intorno, è un dato di fatto, una malattia, una distorsione della realtà, una lacrima lunga tutto l’epilogo della vita che non puoi scacciare e non puoi neanche asciugare, perché indietro non si torna, mai.
La vecchiaia che comporta questo tipo di annullamento della memoria, lenta ed inesorabile porta anche un tipo di malattia molto simile, forse sono la stessa cosa o forse no e mi riferisco all’Alzehimer, di cui è stata colpita mia nonna molti anni fa e che ormai, adesso, è solo un lontano ricordo che serbo nella memoria e che ha cambiato il mio modo di percepire il mondo.
Sembra esagerato ma non è così, credetemi. Per chi ha a contatto una persona che vive questa disfunzione celebrale, che è demente dal punto di vista cognitivo e davanti al quale la sua vita ha ormai perso qualsiasi senso, si ritrova a farsi tante domande e a chiedersi cosa davvero sia importante in questa vita, la cui concezione, sensazione, percezione, da un momento all’altro ci viene strappata via.
Ora la carne non profuma più di buono, lo spirito è appesantito dalla consapevolezza, il sorriso stancato dalla sofferenza e il corpo non ispira tenerezza ma piuttosto repulsione. Tutta una vita tra un pannolino e un pannolone.
Gabriella Mazzon racconta con uno stile lucido, scorrevole, essenziale, dotato di un realismo a tratti allarmante, crudo, spesso feroce, rischiando il più delle volte di essere lapidario, il suo rapporto scarnificato con la madre, di nome Nina. Una donna che vive una malattia come il tumore e che affronta giorno dopo giorno la tragedia della dimenticanza. Un dramma esistenziale che si riflette negli occhi stralunati e spenti di un malato di demenza senile che ti guarda senza riconoscerti, che ti chiede chi sei, che ti chiama a volte con un nome che non è tuo, scambiandoti per chissà quale fantasma della sua ormai spezzata esistenza.
L’autrice non abbellisce la sua storia di aneddoti, di frasi erudite o licenze poetiche, non c’è nulla di bello o di meraviglioso in ciò che racconta, c’è solo verità e disincanto. C’è il dolore quotidiano della perdita di una persona cara, di una madre, mentre è ancora davanti a te, viva, mentre ti respira in faccia eppure a te sembra già morta. Perchè morti sono i suoi ricordi, morta è la sua memoria, morti i suoi movimenti, le sue elucubrazioni, le logiche manifestazioni di partecipazione alla realtà. Come si fa ad accettare che la persona che ti ha messo al mondo, non ti riconosce più? Per lei sei come chiunque altro, come un perfetto sconosciuto a cui chiedere continuamente qualcosa.
La demenza è così, scompiglia, crea, cancella e ricompone parole che sembrano mischiate alla rinfusa generando frasi in apparenza senza senso.
La demenza senile è qualcosa di oltraggioso perché è triste dirlo, ma a perdere è la dignità dell’ammalato. L’autrice procede descrivendo le giornate che passa accanto alla madre, i tentativi di renderla ancora partecipe del mondo che la circonda, il cercare continuamente di trovare un punto di appoggio, un appiglio tra lei e quella figura ormai invecchiata, piena di acciacchi e di malanni che però è ancora sua madre e lo sarà per sempre.
Non importa che non ricorda più nulla, che da mattina a sera bisogna prendersi cura di lei, di ogni suo bisogno, di ogni sciocchezza, non importa che la sua vita si sia ridotta a quella di una larva umana.
Leggere questo romanzo mi ha fatto tornare in mente alcune immagini di mia nonna quando la malattia l’aveva ormai consumata e la sua lucidità era qualcosa di raro e di speciale. Una lucidità che io cercavo con tutte le mie forze perché mi avrebbe fatto capire che lei c’era ancora, era qui con me, la sua presenza mentale, spirituale, era qualcosa di così prezioso da essere ormai diventato inarrivabile.
Durante la lettura ho colto tutte le sfumature, da quelle più angosciate a quelle più intime, che hanno a che vedere con i sentimenti e il cuore di chi vive storie come questa.
La madre è avvolta da un velo che la avviluppa, un velo terribile, mostruoso che non puoi tirare via all’improvviso quando ti sei stancato di vederlo. Non è un velo protettivo, è un velo di morte. Un velo che crea distanza, ansia, insoddisfazione e mette in evidenza la tua incapacità interiore ed esteriore di aiutarla a reagire. Non puoi fare nulla, un malato di demenza senile è chiuso da qualche parte e tu non poi raggiungerlo.
Poi ci sono i problemi con le strutture sanitarie, con i medici, la lotta quotidiana all’emarginazione perché quando porti un vecchio in ospedale ti mettono di fronte la loro irreversibile realtà che si concentra in queste parole: è vecchio, morirà prima o poi, che siete venuti a fare? Cosa pretendete?
Inutile insistere su una vita che vita non ha più, su vecchi che altro non sono che simulacri di ciò che sono stati.
Ma c’è una possibilità di sopravvivenza in tutto questo ed è il presente, la concezione che bisogna imparare ad affrontare la vita, questa vita, senza previsioni, senza ricordi, affondando direttamente le mani nei frutti del momento. Frutti spesso acri, giri di giostra amari che si tingono del pericolo più nero ma che vanno affrontati per non perdere la speranza e per non perdere la persona che amiamo, seppur ostaggio di questa malattia.
Il presente è la nostra e la loro salvezza.
Io sono Nina è una storia che arriva direttamente al punto, che non dà possibilità di riscatto ma solo una lucida e consapevole versione dei fatti. Una visione senza magia e senza rimpianti di ciò che è, senza mezzi termini.
Una narrazione che suggerisce i pensieri dell’autrice e di chi ha condiviso le stesse difficoltà, le frustrazioni e quel senso di impotenza che ci rende sempre più umani.
Un romanzo che va letto anche se non avete mai affrontato un dramma simile, anche se siete ancora parte integrante del mondo di chi amate, anche se vostro padre e vostra madre vi chiamano ancora per nome. Anche se… non avete toccato con mano, letto negli occhi di un malato, una sofferenza indicibile che deriva dall’incapacità di esprimere ciò che sente perché magari vorrebbe ma ha perso qualcosa, ha perso il contatto con il mondo senza neanche rendersene conto e soprattutto senza volerlo. Io sono Nina sono io, sei tu, siamo noi perché il cielo che ci sovrasta è uno solo e la terra è la stessa. Siamo tutti figli della stessa vita e della stessa morte.
Straziante e... bellissimo. So di cosa parli, Antonietta.
RispondiEliminaUn abbraccio fortissimo! <3<3<3
Elimina