Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice L'Orma, oggi vi parlo di Vedove di Camus di Elena Rui.
vedove di camus di Elena Rui Editore: L'orma Pagine: 180 GENERE: Romanzo Prezzo: 9,99€ - 18,00€ Formato: eBook - Cartaceo Data d'uscita: 2025 LINK D'ACQUISTO: ❤︎ VOTO: 🌟🌟🌟🌟
Trama:
Il 4 gennaio 1960, la Facel Vega guidata dal celebre editore Michel Gallimard sfreccia lungo una strada della Borgogna e va a schiantarsi contro un platano. Sul sedile del passeggero, Albert Camus, che solo tre anni prima era stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura, muore sul colpo. Mentre il mondo intero rimane attonito, orfano di uno dei più grandi intellettuali del Novecento, quattro donne si ritrovano all’improvviso “vedove” dell’uomo che amavano: la moglie Francine Faure, la brillante attrice Catherine Sellers, la giovane pittrice Mette Ivers, di origini danesi, e Maria Casarès, immensa interprete del teatro francese, che Camus stesso - fedele ai paradossi del sentimento - definiva «l’Unica». Con estro e rigore, Elena Rui indaga le vite e le voci di queste quattro figure femminili di fronte all’ineluttabilità della disgrazia. Si imbastisce così «un discorso sull’amore» che rifiuta viete certezze morali per restituire la trama sottile, contraddittoria e irriducibile degli affetti, offrendo a chi legge la libertà - e l’onere - di interrogarsi sui confini e sugli abissi dei rapporti umani.
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RECENSIONE
Vedove di Camus di Elena Rui è un romanzo che ci invita a guardare oltre il Premio Nobel, oltre l'autore de Lo Straniero e La Peste, per incontrare l'uomo, Albert Camus, attraverso gli sguardi delle quattro donne che lo amarono e che la sua morte assurda, il 4 gennaio 1960, rese vedove, ciascuna a suo modo.
Non si tratta di una semplice biografia romanzata, ma un'immersione corale in un ecosistema emotivo complesso e contraddittorio. Elena Rui, basandosi su una documentazione prodigiosa che include diari, epistolari e biografie, non inventa tanto i fatti, quanto le risonanze interiori, i silenzi, i pensieri inespressi. La sua scrittura si fa medium, restituendoci quattro voci distinte, quattro modi di vivere l'amore, il lutto e l'eredità di un uomo che, come scriveva nei suoi Taccuini, conosceva "un solo dovere, ed è quello di amare", ma la cui capacità di distribuire questo amore lo rendeva al tempo stesso un generatore di vita e una fonte di incommensurabile sofferenza.
L'autrice conferisce a ogni "vedova" una partitura unica, un timbro inconfondibile che definisce il suo rapporto con Camus e il suo modo di elaborarne la perdita.
Francine Faure, la Moglie. La sua è la voce del lutto ufficiale, ma anche quella della tragedia più intima e silenziosa. Elena Rui la dipinge con una delicatezza straziante: una donna colta, intelligente, ma perennemente insicura, schiacciata dalla depressione e dal confronto con le altre. Mentre il mondo piange lo scrittore, Francine piange il marito che non è più suo da tempo, un "fratello" con cui condivideva una tenerezza fatta di inadeguatezze complementari. La sua missione diventa un calvario filologico: decifrare la grafia illeggibile de Il primo uomo, l'opera testamento che Camus portava con sé. In questo atto di devozione, Francine si riappropria del marito-scrittore, diventando la custode ultima della sua eternità, ma anche la prima testimone delle sue verità più private e dolorose. La sua storia è un saggio struggente sul divario tra ruolo pubblico e sofferenza privata.
Maria Casarès, l'Unica. Se Francine è la vedova della Terra, Maria è quella del Fuoco. Attrice immensa, esule spagnola fiera e indomita, è "l'Unica", l'amore assoluto, l'interlocutrice intellettuale e passionale con cui Camus ha condiviso sedici anni di una relazione che trascendeva le convenzioni. La sua vedovanza è clandestina, priva del conforto pubblico, ma non per questo meno legittima. L'autrice ne cattura la forza tragica, la convinzione di un legame indistruttibile che non necessitava di esclusività per essere totale. Maria non piange un traditore, ma un complice, un'anima gemella la cui assenza crea un vuoto cosmico. La sua voce è quella dell'orgoglio, della lealtà a un patto non scritto, e della certezza che il loro amore fosse una creazione a due, una "narrazione" così potente da sopravvivere persino alla morte.
Catherine Sellers, la Devota ("Sherlock Holmes"). La sua è la voce della passione e dell'ossessione. Attrice talentuosa, ma anche assistente devota, soprannominata da Camus "Sherlock Holmes" per la sua abilità nel fare ricerche per lui, Catherine vive un amore che si nutre di vicinanza artistica e di una disperata ricerca di conferme. La sua vedovanza è un labirinto di gelosia e dolore. Elena Rui è brava nel descrivere il suo strazio nello scoprire che i gesti d'amore di Albert, i dischi, i libri, le frasi, non erano unici, ma parte di un copione replicato con altre, in particolare con la giovane Mette. Il suo percorso è quello di chi deve imparare che l'amore di un uomo complesso non è un possesso, ma un'esperienza. La sua amicizia postuma con le altre "vedove" diventa una forma di terapia, un modo per ricomporre un'immagine più vera dell'uomo che ha amato fino a quasi annullarsi.
Mette Ivers, la Giovinezza. La sua è la voce della Memoria, filtrata dalla distanza di una vita intera. Giovane e bellissima modella e artista, Mette rappresenta l'ultimo, felice slancio vitale di Camus. La sua narrazione, ambientata decenni dopo, è pacata, quasi nostalgica. Non c'è la tragedia di Francine o la passione assoluta di Maria, ma il ricordo agrodolce di un amore vertiginoso che l'ha rivelata a se stessa prima di essere brutalmente interrotto. Attraverso Mette, il romanzo riflette sul tempo, su come le passioni si trasformino in tappe di un'esistenza più lunga e complessa. Lei è la prova che si sopravvive, che si ama ancora, ma che certi incontri lasciano un'impronta indelebile, un "posto delle fragole" a cui la mente ritorna per sempre.
Leggere Vedove di Camus oggi significa compiere un atto di profonda intelligenza emotiva. In un'epoca che tende a semplificare, a giudicare, a "cancellare" le figure del passato sulla base di standard morali anacronistici, il libro di Elena Rui ci restituisce il diritto alla complessità. Camus non ne esce né santificato né condannato. Emerge l'immagine di un uomo lacerato, consapevole delle proprie contraddizioni, che scriveva: "Tutti e tutte addosso a me, per distruggermi [...] reclamando senza sosta la propria parte e senza mai [...] amarmi insomma per ciò che sono".
Questo romanzo ci fa capire che dietro i grandi scritti sull'assurdo, sulla rivolta e sulla felicità di Camus, c'era una fame di vita insaziabile, un "ardore famelico" che alimentava la sua arte ma esigeva un prezzo altissimo da chi gli stava accanto. La sua morte, un "banale fatto meccanico", segna la fine dell'uomo, ma è l'inizio del suo mito e della sua eternità artistica. E sono proprio queste donne, le sue "vedove", le prime, involontarie sacerdotesse di questo culto. Sono loro a raccogliere i frammenti della sua vita e della sua opera, a custodire le lettere, a decifrare i manoscritti, a trasformare il dolore in memoria.
Elena Rui ci mostra che l'arte non nasce nel vuoto, ma è intrisa di vita, di corpo, di desiderio, di lacrime e di gioia. La bellezza di questo libro sta nel suo potere di resuscitare non solo un uomo, ma l'intero universo di sentimenti che lo circondava, dimostrando che la scrittura, quando è così onesta e profonda, è l'unica forma di immortalità a cui possiamo davvero aspirare.
È un invito a leggere i grandi autori non come idoli intoccabili, ma come esseri umani fallibili e magnifici, e a trovare nella loro arte non risposte definitive, ma l'eco eterna delle loro stesse, irrisolte, domande.
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