Bentrovati cari lettori! Oggi vi presento Il Codicista di Aldo Di Virgilio, un libro molto particolare che mi ha colpito molto. Una storia che si muove tra la satira, l'ironia, il surrealismo, ponendo in evidenza come una grande allegoria, tutto ciò che non va nella nostra società, partendo da un aspetto fondamentale, quello che dovrebbe essere il più sano e rappresentativo di tutti: la giustizia. Non perdete l'intervista!
il codicista
di Aldo Di Virgilio Editore: Argento Dorato Pagine: 214 Prezzo: 14,00 € Formato: Cartaceo Data d'uscita: Luglio 2017 Link d'acquisto: ➜ QUI
Trama:
Sospeso fra satira, surrealismo e fantastico, "Il codicista" accompagna il lettore in un'allegorica discesa all'inferno nelle viscere del kafkiano "Palazzaccio". Willy Deville inizia la sua carriera al Ministero del Benessere, punto di partenza della scalata al potere e insieme della sua perdizione, verso la più abietta condizione morale. Una galleria di personaggi grotteschi e claustrofobiche sale del potere dipinta a violente pennellate in uno stile personalissimo, ricco di echi dei grandi autori del Novecento, che raccoglie a piene mani dal cupo immaginario medievale per raccontare una storia attualissima.
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RECENSIONE
Il Codicista è un libro di cui se ne vedono in giro pochi. Non mi sento di definirlo, etichettandolo con un genere in particolare ma è ovvia la sua superiorità e la sua peculiarità rispetto alla produzione narrativa italiana.
Aldo Di Virgilio scrive un testo in cui si mescolano satira e riflessioni filosofiche, religiose, economiche, politiche che riguardano ogni aspetto della nostra società.
L’escamotage utilizzato è quello di una rappresentazione allegorica che vede il protagonista, Will Deville, impiegato presso il Palazzaccio, ossia il Palazzo di Giustizia di Roma. Un luogo dove apparentemente dovrebbe conservarsi intatta la legge ed ogni sua forma ma che a lungo andare vedremo nella sua vera veste: una natura bizzarra e alquanto mefistofelica.
Will incontra personaggi di ogni genere, si rapporta alle più svariate figure umane, uomini e donne che non hanno nomi consoni a come siamo soliti interpretarli, ma che si rivestono di significati simbolici in una nomenclatura che rimanda sempre a qualcos’altro e che diventa una pura interpretazione di ciò che si cela dietro la parola.
È un po’ un gioco a volte sottile, altre più diretto, con cui l’autore crea battute ironiche, a volte anche profondamente tristi, misere come è misero il nostro mondo in quel suo atteggiamento di corruzione e di superiorità che tende sempre e comunque a farsi beffa dell’altro e ad usarlo.
L’autore, con una sorta di megafono immaginario, fa parlare il se stesso più colpito e ferito dall’amministrazione e dai suoi funzionari, mettendo in evidenza una serie di circostanze che conducono il lettore ad entrare in un mondo che appare magico, surreale ma che non è altro che lo specchio della realtà e dunque anima della verità.
Lui ci guida, ci ispira… Noi gli obbediamo ciecamente.
Lo stile diventa voce di questo sistema attuato per denigrare aspetti come quello della giustizia, delle leggi, di ciò che dovrebbe avere valore e che invece viene bistrattato ed infangato esattamente come i suoi rappresentanti, poiché non bisogna essere né troppo intelligenti, né eloquenti e bisogna sovrapporre sempre l’obbedienza alla competenza.
Questa affermazione, centrale per altro all’interno del testo, racchiude un po’ tutto il senso di questo viaggio attuato con un linguaggio roboante, ritmico, satireggiante, ironico, puntiglioso, capace di punzecchiare, di saltellare e di affondare.
Gli uomini, dalle più alte cariche a quelle più basse, non ci fanno una bella figura. Vengono rappresentati con una tendenza aggregativa e che li fa emergere come un gregge pronto a seguire ciecamente chi comanda, chi controlla, chi decide, inesorabilmente.
Il popolo del Palazzaccio, così definito, è un popolo di ignoranti creati apposta per osannare l’imperatore, ossia il capo, e ogni individuo deve necessariamente agire in difesa del bene e del male che quei capi rappresentano. Non c’è altra via d’uscita.
Ma chi è il Codicista? E soprattutto cosa c’entra l’Inquisizione? Entrambi sono la stessa persona, in quanto il Codicista è l’inquisitore ossia colui che crea il codice dei sentimenti al fine di salvaguardare un pericolo fondamentale. Una sorta di mutazione che conduce proprio i dipendenti pubblici di quel ministero a trasformarsi in creature mostruose e l’inquisizione è l’atto punitivo per aver così trasgredito la volontà divina. Ma è anch’egli un funzionario, come tutti gli altri e dunque votato al fallimento.
L’imperatore ha sempre ragione, capito? Guai a voi, scellerati, che ne contestate la volontà! Intellettuali, tromboni, popolino, tutti uguali, criticatori con la puzzetta sotto al naso abituati alla polemica fine a se stessa! Voi ubbidirete e basta! Tacete ignoranti!
Will è simbolo di una visione contorta che va via via chiarendosi e che non pone il protagonista come un eroe ma bensì come qualcuno che fa parte inevitabilmente di quel mondo di cui si sta evidenziando il fallimento, il becero, lo sbagliato, e dunque è anch’egli vittima e carnefice di quel contesto pubblico che viene criticato.
La storia, narrata con un ritmo serrato, con un linguaggio che acquista sempre più intensità e che ad un certo punto comincia a perdere anche di logica, proprio quando il Male prende il sopravvento, è una discesa verso gli inferi, verso un’oscurità dove emerge, ahimè, un pessimismo cosmico, ossia qualcosa che non ha possibilità di redenzione, né di salvezza.
OBBEDIENZA
OBBEDIENZA
OBBEDIENZA
Il Codicista è espressione di acuta intelligenza, di prontezza, di sagacia e di astuzia. Le emozioni umane sono al centro della narrazione e lo svolgersi degli eventi diventa come un generale affresco pittorico che ne evidenzia la complessità, la maestosità e il male, interiore ed esteriore. Quasi come un gioco mentale, una rappresentazione cinematografica che si specchia nella mente e i cui colori, si riverberano sulle mani e sul corpo.
Emozioni forti come la paura, il pregiudizio, la rabbia, il senso di vendetta, la colpa, l’arroganza, la superiorità, che vanno ad arricchire una dimensione che alla fine diventa estremamente chiara e allarmante tanto da far tremare.
Questa è una lettura per animi superiori, in cerca di riflessioni e di sconcerto, di pensieri acuti e di dimostrazioni evidenti dell’intelletto umano. Solo per chi ha voglia davvero di leggere qualcosa che non è mai stato scritto prima. Vi pare poco?
INTERVISTA
Salve, Aldo, grazie di aver accettato questa intervista e benvenuto!
1) Il Codicista è un romanzo che si presta a molteplici interpretazioni. Partiamo dal titolo, così particolare, ci spieghi il perché della sua scelta.
Il Codicista è un emissario dell’Inquisizione romana, chiamato dal Ministero del Benessere a risolvere il problema delle misteriose mutazioni che affliggono i suoi dipendenti, e costui ritiene di curarle attraverso il varo di un Codice dei Sentimenti, personalmente concepito e redatto. Da qui il titolo, dal significato strettamente letterale.
2) Ci racconti a quale genere letterario appartiene, così, per chiarire ai lettori di cosa si tratta e per cogliere l’occasione al fine di dare più informazioni su di esso.
Quando ho iniziato a scriverlo non ho pensato al genere letterario di riferimento, ed in effetti la trama così ricca e complessa non ne consente una precisa classificazione. Comunque il protagonista, altrettanto colpito dalla mutazione che caratterizza gli altri colleghi, vive una realtà deformata, allucinata, che lo spinge fino agli estremi confini della pazzia. Pertanto, per lunghi tratti, lo si potrebbe definire un romanzo fantastico; un romanzo di psicopatologia fantastica.
3) Entriamo nel vivo della storia. Il protagonista, Will Deville, lavora presso il Palazzaccio, ossia il Palazzo di Giustizia di Roma, ed è proprio questo luogo ad essere il fulcro di tutti gli avvenimenti ma soprattutto dei valori simbolici e dei significati intrinsechi che si celano dietro questa vicenda. Ci spieghi com’è nata l’idea di questa ambientazione e il fine ultimo della sua rappresentazione.
Sono un funzionario pubblico, per cui in questo scritto ho traslato parte del mio mondo interiore, plasmato da tale ventennale esperienza lavorativa. Ne consegue, ovviamente, che il Palazzaccio sarebbe la metafora di qualsiasi edificio della Pubblica amministrazione, ideale ricettacolo del male amministrativo che sulla mia pelle ha lasciato segni indelebili, in una maniera così profonda da restarmi impressa quasi senza rimedio. Allora, ho pensato che l’unica maniera per liberarsene era analizzarlo, descriverlo, definirlo. Ecco, la comprensione del male amministrativo credo sarà utile non solo a me, ma anche a tutti i funzionari che come me vorranno sfuggire alle sue spire mefitiche.
4) Qual è il rapporto tra Bene e Male all’interno della storia? Chi sono gli eroi, se ci sono, e i nemici? Come ha effettuato questa differenziazione e fino a che punto il protagonista è affidabile?
Il Male assorbe completamente il bene, il male si insinua nella mente delle persone e fa percepire loro un mondo che forse esiste o forse no, dunque è quanto meno aleatorio qualsiasi tentativo di separare l’uno dall’altro. L’unica ancora alla quale il protagonista si aggrappa è quel brandello di lucidità che, a tratti, emerge, e che dovrebbe consentirgli una via d’uscita dalla spirale dell’orrore. Il mondo, osservato da un uomo sulle soglie dell’alienazione, perde qualsiasi connotato di affidabilità. Magari è possibile che il racconto rappresenti solo un gigantesco imbroglio, una finzione; magari la realtà è rimasta uguale a se stessa, essendo semplicemente osservato dai sensi alterati del funzionario malato.
5) Quali sono i sentimenti, le emozioni che prevalgono e perché?
Il senso di colpa prevale sui tentativi di redenzione. In fondo, il protagonista, ammalandosi insieme agli altri colleghi, non è immune dal male, nonostante i ridicoli tentativi di separarsi da esso. La storia si ripete sempre uguale, non vogliamo rinunciare ai privilegi che una condizione stabile, quale quella di dipendente pubblico garantisce, e facciamo di tutto per seppellire questa scomoda verità nelle pieghe più nascoste della nostra coscienza.
6) Lo stile è qualcosa di fuori dal comune e lei stesso ha affermato che esso diventa un chiaro riflesso della trasfigurazione del Male. Esso muta qualsiasi cosa con cui venga a contatto, indi anche la lingua, il linguaggio che diventa diretta manifestazione del suo potere. Ci racconti i processi che ha affrontato per raggiungere questo stadio di realizzazione stilistica.
La mia prima preoccupazione è stata quella dell’immedesimazione, con il maggior grado possibile di fedeltà, allo stato mentale di un alienato. Mi sono domandato, per lungo tempo, se un “impazzito” conservasse dei processi logici, e quali ne fossero le eventuali modalità esplicative. Ho pensato a pensieri febbrili, incalzanti, rapidi, a volte allucinati, che tradotti in parole si sarebbero trasformati in uno sciame di suoni e significati. Su questo ronzio di base, poi, avrei innestato i meccanismi perturbativi del male, talmente potenti da riuscire, nel momento del suo massimo fulgore, a incidere persino sul segno in quanto tale. La parola si piega, ingigantisce o rimpicciolisce, si allunga, si accorcia. La parola tridimensionale.
7) Il suo romanzo può anche essere definito come un viaggio, un’immersione violenta e confusionaria, almeno a primo impatto, nel mondo della Pubblica Amministrazione, attraverso l’uso delle metafore e dei simboli. I nomi dei personaggi sono sempre particolari, capaci di richiamare altre realtà e con esse, specifici contenuti che ne rilevano le peculiarità, negative, ovviamente. Quanto tempo ha impiegato per scriverlo? E quali difficoltà ha riscontrato? Se potesse tornare indietro, cambierebbe qualcosa?
Con questo romanzo ho ingaggiato una lotta fisica, muscolare; l’asimmetria dei personaggi spesso mi è sfuggita di mano, ci sono voluti interminabili aggiustamenti per scongiurare l’entropia. Otto, lunghi anni di sperimentazioni e naufragi che mi hanno portato alla meta stremato. In tale condizione, dopo, cioè, che hai limato per migliaia di volte una frase, perdi il senso del presente e del passato. Gli eventi vivono in un’unica dimensione spazio temporale, dove non c’è prima e dopo, e quindi la stessa possibilità di tornare indietro non esiste.
8) Il mondo rappresentato, il nostro mondo, sembra essere senza speranza. Tutto quello che dovrebbe essere migliore, nobile, sacro, incarnato dalla Giustizia non lo è. Allora, oltre alla visione piuttosto cruda e sensata che lei offre al lettore, senza illusioni e senza sogni, oltre quindi alla meschina realtà, quali sono gli altri messaggi, magari più nascosti che i lettori dovrebbero cogliere?
Credo davvero nella possibilità di redenzione, nonostante tutto. Il cuore del romanzo è nel titolo stesso; il Codicista propugna lo strumento sul quale si dovrebbe costruire la rinascita morale dei dipendenti pubblici, e poi degli italiani, ovvero un Codice dei Sentimenti, dei buoni sentimenti. D’altronde, se ci riflettiamo, tutti i più grandi capolavori artistici del nostro paese, architettonici, scultorici e pittorici, vennero seguiti, dopo l’illustre committenza, da oscuri funzionari al servizio di corti e reami che misero in atto corrette pratiche amministrative. Dopo il Colosseo, il Duomo di Milano, il Palazzo Ducale di Venezia, Santa Maria del Fiore a Firenze, i palazzi sabaudi, perché una nuova schiena di funzionari non potrebbe perseguire altrettanta bellezza?
9) Qual è lo scopo che l’ha spinta a narrare una storia così codificata che però rispecchia un mondo altamente corrotto, prepotente, pieno di arroganza, di potere e di totalitarismo? Vendetta? Rabbia? Speranza? Altro?
La molla dell’esperienza personale, innanzitutto. Come qualsiasi funzionario ho avuto dei contrasti con dei colleghi, ma sono fisiologici, ed altrettanto fisiologicamente si sarebbero potuti risolvere, con un chiarimento od una riappacificazione. Eppure, non è andata così: la sofferenza che ne è conseguita, unita ad un’esperienza personale di malattia, è deflagrata in un sentimento rabbioso, dimodoché percepii quegli eventi come il frutto tossico di una ingiustizia insanabile. Con il passare del tempo, per fortuna, la rabbia è scemata, rimanendone però un rancore sordido e freddo, stabile, un palpito perenne. In quel momento, allora, decisi che non l’avrei espulso se non narrando il male che ne stava a monte. Da qui è nata la necessità di scrivere questo romanzo.
10) Si fa riferimento all’Inquisizione e alla religione. In che modo e con quale valore essa rientra nella trama e nei messaggi più importanti del testo?
L’Inquisizione gioca un ruolo fondamentale, rappresenta il termine di paragone per misurare il paradosso di questa storia. Se nemmeno l’organismo punitivo più terribile ideato dall’uomo, riesce a portare pace all’interno del Ministero del Benessere, vuol dire che siamo pericolosamente vicini alla soglia del non-ritorno. L’istituto inquisitoriale opera ed operò secondo criteri razionali e scientifici, nonostante la vulgata popolare, dunque mai avrebbe potuto accettare il metodo rozzo e arbitrario con il quale i vertici ministeriali torturano le bestie un tempo dipendenti. Il paradosso sta in questo, nel fatto che la parte moderata in questa farsa la interpretano gli inquisitori.
11) Cosa rappresenta la scrittura per lei?
Già si intuisce dalle precedenti risposte che per me la scrittura è spreco, disseminazione, gioia escrementizia. Come per Rabelais la scrittura non è un atto letterario, è un atto terapeutico. Questo è un libro-medicina, che si ispira alle teorie galeniche dell’eucrasia e della discrasia. Qui, ho voluto riequilibrare l’eccesso di umore nero (il male) espellendolo attraverso il riso clownesco, la gioia pazza della parola. Tutto il romanzo è infarcito di umida, e crassa, ironia.
12) Sta lavorando ad un nuovo progetto?
Questo è il primo di una quadrilogia. Ho già firmato con Argentodorato (la mia casa editrice, di Ferrara) per il secondo romanzo, dal titolo “Amanita Phalloides”. Ad esso segue (già terminato) “Gli Immortali”, ed entro l’anno prossimo finirò il quarto, “14.000 metri”.
13) Cosa si aspetta da questa pubblicazione e dal mondo dell’editoria in generale? Cosa si aspetta da se stesso? È orgoglioso di ciò che ha scritto?
Mi aspetto un megafono. Questo romanzo ha bisogno della voce del suo lettore, perché è stato scritto ad alta voce, una specie di declamazione letteraria. Le parole, così, saranno più vibranti, più vive, avranno il sapore della carne e del sangue. Se rinunciassi a rendere suono le trame che fioriscono e fioriranno nella mia testa consentirò al vuoto, allo spaventoso silenzio, di stendere il suo gelido sudario sulle nostre esistenze, minacciandole di morte. Questo mi aspetto da me stesso, di non smettere mai di trasformare i pensieri in parole e suoni. E affinché questa sorgente non si prosciughi, l’insoddisfazione, il dolore, il desiderio, la difficoltà, mi dovranno tenere perennemente compagnia.
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