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mercoledì 5 marzo 2025

Recensione: PIÙ GRANDE DEL CIELO di Virginie Grimaldi

Buongiorno! Grazie alla collaborazione con la casa editrice Edizioni E/O, oggi vi parlo di Più grande del cielo di Virginie Grimaldi.


piÙ grande del cielo

di Virginie Grimaldi
Editore: Edizioni E/O
Pagine: 240
GENERE: Narrativa contemporanea
Prezzo: 11,99€ - 18,50
Formato: eBook - Cartaceo
Data d'uscita: 2025
LINK D'ACQUISTO: ❤︎
VOTO: 🌟🌟🌟🌟🌟 

Trama:
Elsa, quarantenne, madre del piccolo Tristan, divorziata da poco, lavora in un’agenzia di pompe funebri, dove ha il delicato ruolo di ricevere, ascoltare e consigliare i clienti, gente solitamente addolorata e smarrita se non addirittura affranta. Anche lei viene colpita dal lutto quando muore l’amato padre: è un dolore cocente, un colpo da cui non riesce a riprendersi, un’ossessione per liberarsi dalla quale non le resta altra scelta che ricorrere alle cure di uno psichiatra. Vincent, più o meno la stessa età, padre di due figlie, divorziato da poco, è uno scrittore di successo, un autore di bestseller che viene invitato in tutte le fiere e saloni del libro e ha migliaia di fan che restano in fila per ore pur di ottenere un autografo. Eppure non è felice. Dentro di lui c’è qualcosa di rotto, forse un trauma antico, un blocco che gli impedisce di amare, quindi di vivere, e per risolvere il quale non ha altra scelta che ricorrere alle cure di uno psichiatra. Nella sala d’attesa del dottor Chaumet avviene l’incontro, un incontro che per la verità sfiora la rissa. Non è un colpo di fulmine, è un’antipatia reciproca e immediata, ma è anche l’inizio di una riscoperta di se stessi e di un graduale abbandono del dolore che permetterà a entrambi di rinascere e trovare l’amore. Sì, è una storia decisamente romantica, ma fa anche morire dalle risate.

RECENSIONE

Più grande del cielo di Virginie Grimaldi è una storia di perdita e rinascita, di dolore e ironia, di vuoti che nessuna parola può colmare e di incontri che, seppur casuali, finiscono per salvarci in modi che non ci aspetteremmo mai. 

Virginie Grimaldi ci ha abituati a storie che esplorano l’animo umano con una scrittura intima, sincera, a tratti disarmante. Eppure, in questo romanzo, la sua penna sembra scavare ancora più a fondo, con un realismo che non lascia scampo, con una delicatezza che non attenua il dolore ma lo illumina, lo rende visibile, concreto, umano. 

Elsa ha quarantadue anni ed è madre di Tristan, un ragazzo di quindici. Lavora come consulente funeraria e, per anni, ha avuto a che fare con il dolore altrui, con la morte gestita in modo burocratico e impersonale. Ma quando è il suo turno di affrontare la perdita, ossia la morte improvvisa del padre, tutte le certezze crollano. Elsa si ritrova inghiottita da un lutto che la paralizza, che le fa perdere ogni riferimento. “Sono due mesi che mio padre è morto ed è la prima volta che riesco a pronunciare questa frase. Crede di potermi aiutare?” chiede al suo terapeuta. 

La sofferenza di Elsa è autentica, sporca, senza filtri. Piange per un nonnulla, si sente irritata dal mondo, si scopre incapace di fingere un benessere che non esiste: “Piango continuamente per un nonnulla. L’ultima volta ho pianto mentre venivo qui, ho visto un pettirosso che saltellava sul marciapiede e mi sono commossa per quel lembo di natura nel grigiore, mi sembrava un simbolo di resistenza”

E poi c’è Vincent, uno scrittore di successo che ha tutto, denaro, fama, riconoscimento, eppure si sente svuotato, distaccato dal mondo. La sua relazione con Manon è finita e lui è troppo apatico per reagire, per provare un’emozione autentica. —“Quando Manon ha detto che mi lasciava, ho subito pensato al dolore delle bambine. Probabilmente non sarei dovuto andare a vivere con lei, ma ci credeva talmente che a un certo punto ci ho creduto anch’io”. 
Vincent è un uomo che non sa più sentire, che si è perso nel successo senza capire dove abbia smarrito se stesso. 

Due storie diverse, due vite che si incrociano casualmente nella sala d’attesa di uno psicoterapeuta. Elsa e Vincent inizialmente si infastidiscono a vicenda: lei lo trova arrogante, lui la considera scontrosa. Eppure, è proprio questo scontro di caratteri a renderli speculari, a creare un legame impercettibile ma profondo tra due anime spezzate che, senza saperlo, cercano la stessa cosa: qualcuno che capisca il loro dolore senza giudicarlo. 

L’autrice affronta il tema del lutto in un modo che si allontana dalle narrazioni convenzionali. Non c’è retorica, non c’è la solita parabola del dolore che si dissolve con il tempo. Elsa non "supera" la morte del padre. Il dolore non sparisce, cambia forma.  “Non riesco a capacitarmi che non la sentirò mai più. Quel ‘mai più’ è insopportabile”. 

Il romanzo sfida l’idea tossica secondo cui bisogna elaborare la perdita in tempi ragionevoli, che il dolore debba avere una scadenza sociale. La società non sa come trattare chi soffre: la vicina di Elsa le dice “Credi che lui sarebbe contento di vederti distrutta?”, come se il dolore fosse un affronto ai morti, un disturbo per i vivi. 

E qui sta la grande lezione del romanzo: il dolore non va normalizzato né rimosso. Va vissuto, attraversato, rispettato. Elsa lo fa a modo suo: facendo un tatuaggio per ricordare il padre, raccontando ossessivamente aneddoti su di lui, concedendosi il lusso di non stare bene. Perché il lutto non è solo assenza, è anche una forma di presenza: ciò che abbiamo perso continua a esistere in ogni gesto, in ogni oggetto, in ogni dettaglio apparentemente insignificante della vita quotidiana. 

Se Elsa è il ritratto del dolore puro, Vincent è il simbolo di un altro tipo di smarrimento: quello dell’uomo che ha tutto, ma non sente niente. Il suo successo lo ha reso più insicuro, lo ha messo in una gabbia di aspettative impossibili. Ogni nuovo libro lo terrorizza: “Vedo solo difetti, se dessi retta a me stesso lo riscriverei completamente. Tutti pensano che il successo dia fiducia in se stessi, ma è proprio il contrario”. 
La sua crisi è esistenziale: non crede più nell’umanità, si sente sopraffatto da un mondo che trova sempre più meschino. 

E qui l’autrice tocca un nervo scoperto della società contemporanea: l’alienazione di chi è costantemente esposto, di chi è sempre sotto i riflettori ma non trova più un senso nel proprio ruolo. Eppure, nella sua apatia, Vincent riesce a vedere Elsa. I loro battibecchi si trasformano in scambi profondi, in confessioni velate, in una forma di vicinanza che non ha bisogno di essere etichettata. Non c’è romanticismo forzato tra loro, solo due anime che si riconoscono nella loro fragilità. 

Virginie Grimaldi ha un dono raro: riesce a scrivere di dolore senza renderlo melodrammatico, alternando momenti struggenti a scene di ironia irresistibile. La sua scrittura è scorrevole, immediata, a tratti brutale nella sua sincerità. Usa il dialogo in modo perfetto, costruendo scambi che sembrano vivi, autentici. Ma è nelle descrizioni dei piccoli dettagli quotidiani che il suo stile brilla davvero: il pane ai semi di papavero che si incastra nei denti, la paura di non ricevere più un messaggio vocale del padre, l’odore di benzina che si trasforma in un’inaspettata battuta tra due sconosciuti. 

Questa storie non offre risposte, ma pone solo domande. E la più grande è questa: cosa ce ne facciamo del dolore? Lo ignoriamo, lo accantoniamo o lo accogliamo come parte di noi? 

Più grande del cielo è un libro che non consola, ma accompagna. Parla di perdita e di rinascita, di persone che si incrociano per caso e finiscono per salvarsi a vicenda. È un romanzo che ci insegna a non avere paura del dolore, a non affrettare il processo della guarigione, a non cercare risposte facili a domande impossibili. 
Perché alla fine, il dolore non si supera. 
Si impara a conviverci. 
E forse, in questo, c’è già una forma di salvezza. 
Chi riesce a fare di più, ci insegni come, please. 
Del resto, siamo tutti nella stessa barca.
O sbaglio?

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